Isis, non solo fanatismo ma ideologia neo-totalitaria

di Francesco Fistetti
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Sabato 21 Novembre 2015, 14:07 - Ultimo aggiornamento: 18 Novembre, 09:16
Mentre è ancora in corso la tragica identificazione delle vittime degli attentati di Parigi, tra cui numerosi studenti, professori e ricercatori come la nostra connazionale Valeria Solesin, occorre avviare una riflessione quanto più è possibile lucida e priva di quelle passioni violente come la rabbia, l’odio o il desiderio di vendetta che quegli avvenimenti volevano provocare. Infatti, chi ha ordito e realizzato queste azioni efferate, veri e propri crimini contro l’umanità, scommette su una risposta cieca da parte di chi è stato colpito a morte, tale da trascinarlo nel circolo infernale di una violenza generalizzata, altrettanto insensata ed irrazionale. Beninteso, ciò non vuol dire che la lotta al terrorismo non debba essere ferma e senza alcun tentennamento, soprattutto sul piano della costruzione, a livello europeo ed inter-europeo, di una “intelligence” sempre più sofisticata e vigile, come pure di una “sicurezza” comune.



Senza nulla dire della necessità ormai improcrastinabile che l’Ue diventi uno “spazio politico” autonomo nel concerto dei popoli e delle nazioni in un mondo al contempo globale e multipolare. Ma non è su questi aspetti, pur di bruciante attualità, che vorrei soffermarmi quanto piuttosto sui lineamenti, in parte sfuggenti ed inafferrabili, dell’islamismo jihaidista che costituisce oggi il pericolo principale delle democrazie occidentali. Senza nessuno spirito polemico, mi sento di dire che Franco Cardini, storico di grande competenza, sbaglia quando afferma che i terroristi sono solo un “forsennato gruppo di fanatici che sta utilizzando la religione come un alibi ideologico perseguendo alla luce di esso l’impossibile scopo di unire l’Islam in una guerra contro l’Occidente che esso non ha alcuna voglia e alcuna ragione di condurre”.



Senza dubbio l’Islam non va confuso con questa minoranza sanguinaria e ha dentro di sé una pluralità ed una ricchezza di tradizioni ermeneutiche che hanno inciso profondamente sulla nascita e lo sviluppo della cultura occidentale (basti pensare a Avicenna, Averroè, Maimonide). Ma il problema assolutamente nuovo che ci troviamo di fronte è la natura specifica dell’ideologia elaborata e sbandierata dall’Isis e da quella sorta di bestia immonda che è il jihaidismo. Su questo problema, a ridosso del 1989 con la fine del comunismo sovietico, aveva attirato l’attenzione nei primi anni Novanta uno studioso americano come S. N. Eisenstadt, quando in un libro celebre, “Fondamentalismo e modernità”, aveva osservato che negli odierni movimenti fondamentalistici vi è una componente ideologica giacobina consistente nella “fede propria delle grandi rivoluzioni nel primato della politica, anche se questa politica è concepita come religiosa oppure guidata da un’idea religiosa totalitaria di costruzione della società o di settori di essa”.



Quasi contemporaneamente il tedesco H. Dubiel pubblicava un saggio, “Il fondamendalismo del Moderno”, in cui invitava ad abbandonare l’immagine razionalistica che di solito inscrive i movimenti fondamentalistici nello schema binario ed evolutivo tradizione/modernità, come se essi fossero dei residui fossili di un passato arcaico, destinati ad essere superati con l’ingresso nella società moderna. La verità è, invece, che essi sono una risposta reattiva alle logiche della modernizzazione e della secolarizzazione, che può assumere una molteplicità di forme ibride di commistione tra modernità e tradizione.



Una di queste varianti è l’islamismo jihaidista, che presenta tutti i caratteri di una nuova ideologia totalitaria molto simile, ma anche molto diversa, da quelle conosciute dal Novecento, così efficacemente descritte da Hannah Arendt, ma anche da Claude Lefort, Raymond Aron e Tzvetan Todorov. Che il Califfato dell’Isis presenti tutti i connotati di uno Stato neo-totalitario enucleati dalla Arendt, è innegabile. Si tratta di uno Stato retto dalla perversa combinazione tra ideocrazia e terrore, che annulla i molti soggetti individuali dotati di un proprio sé nell’Uno omogeneo di un corpo sociale e di una dottrina teologico-politica incarnati da un Capo Supremo, e che si muove nella prospettiva palingenetica dell’instaurazione di un ordine politico mondiale come il “Reich millenario” esaltato dai teorici del nazismo, nel nostro caso di natura teocratica. Ma l’Isis non è solo uno Stato criminale, basato su quella che la Arendt chiama la “legge dello sterminio”, vale a dire sulla pretesa di eliminare dalla faccia della terra tutti i regimi, i gruppi umani e le rispettive popolazioni che considera nemici (nel nostro caso infedeli, pagani, portatori di disvalori come i diritti umani, la parità uomo/donna, la tolleranza religiosa, ecc.).



Esso è anche un movimento che travalica i confini di uno Stato e di un territorio, in primo luogo perché predica una sorta di “rivoluzione permanente”, una mobilitazione totale su tutto il pianeta, sia negli Stati liberaldemocratici che nei paesi in cui vivono comunità musulmane come in Africa e in Asia (Cina compresa), specialmente là dove vi sono situazioni di miseria e di degrado sociale. Il fatto che questa mobilitazione totale punti su un reclutamento affidato alla rete e sulla costituzione di cellule “dormienti”, pronte ad entrare in azione al momento ritenuto opportuno, segnala una differenza rilevante rispetto ai totalitarismi del Novecento. E’ l’indice non solo di una strategia che opera nella clandestinità, ma che al contempo si avvale delle tecnologie più sofisticate fornite dalla “rivoluzione digitale” per realizzare le proprie azioni dimostrative e i propri massacri di persone inermi.



Una conferma, qualora ce ne fosse bisogno, che le più grandi conquiste del progresso tecnico-scientifico e la logica dell’economia moderna (si pensi al traffico clandestino delle armi e del petrolio) possono convivere con le dottrine e le condotte più turpi e disumane. Una questione a parte è quella relativa al tipo umano a cui si rivolge il verbo jiahidista: non c’è dubbio che esso s’insinui nel vuoto di senso e di legami sociali prodotto dalle società ipermoderne, in cui il soggetto esplode sotto la pressione di problemi economici, sociali, esistenziali a cui occorre dare una risposta adeguata. La “conversione” ad una setta religiosa o l’entrata in una nuova comunità di fedeli offre una via d’uscita, spesso tragicamente illusoria, dal carico oppressivo social-psicologico della modernità.



Infine, un’ultima differenza, forse la più importante rispetto ai totalitarismi del passato. Questa presenza clandestina del jihaidismo, che s’infiltra negli interstizi delle società democratiche, mira ad indebolirne il sistema immunitario, paralizzandone le capacità di difesa e di espansione dei valori universali, individuali e collettivi, della modernità, che non sempre lo stesso Occidente ha rispettato (libertà, eguaglianza, pluralismo religioso, solidarietà, ecc.). L’obiettivo del tutto evidente è provocare l’instaurazione di uno stato di eccezione che giustificherebbe la sospensione delle garanzie democratiche e dei diritti civili. Se malauguratamente ciò avvenisse, sarebbe la vittoria dei fanatici del terrorismo neo-totalitario e di tutti i nemici della democrazia.