Questa Europa che dimentica storia e identità

di Biagio DE GIOVANNI
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Sabato 21 Novembre 2015, 13:03 - Ultimo aggiornamento: 15 Novembre, 08:32
Muovo da una osservazione radicale, che la drammaticità degli eventi non consente di addolcire: l’evoluzione dell’integrazione europea, soprattutto dal fatale 1989, sta allontanando sempre più l’Europa da una coscienza unitaria di sé, da un’idea del suo ruolo nel mondo umano delle nazioni, e dalla capacità di difendere un patrimonio che, stolidamente, si dà per acquisito per sempre.

Questa regressione la sta come allontanando dalla propria storia, dalla sua tragicità e dalla sua grandezza. Il suo sforzo sembra rivolto alla costruzione di uno spazio omologato, destoricizzato, dove i “valori” fluttuano in una atmosfera impalpabile, deprivati di forma storica e di forza politica. Come se l’Europa, rivissuta come storia di continua violenza su di sé e sugli altri, dovesse solo esser dimenticata, redenta dal male che avrebbe continuamente prodotto, e infine rinnegata, come fa l’ala estrema di un revisionismo storiografico senza più anima e passione.



Non ci si accorgeva – e quanti di noi non se ne sono accorti!- in quale profondità il lavoro di neutralizzazione della storia e dei suoi conflitti, unito alla dimensione sempre meno rappresentativa delle istituzioni, abbia scavato sotto le stesse fondamenta del vecchio continente, svuotandolo delle tensioni insite nella sua civiltà, che sono state, ecco il punto, le ragioni dialettiche della sua grandezza. Insomma, un organismo sempre più artificiale, lontano, quasi per consapevole scelta, dai luoghi che rendono viva e magari terribile la storia degli uomini e delle nazioni. E dove perfino l’ancoraggio del diritto perde ogni certezza. Un’entità ambigua, una forma senz’anima. Una rappresentazione estrema, che da un po’ di tempo avverto profondamente.



Si può anche capire, nel suo inizio, l’avvio di questo processo: ci si doveva allontanare dalle rovine del Novecento, disancorare l’Europa da una parte della sua storia e dei suoi miti. Folle di intellettuali, filosofi, giuristi, hanno provato a lavorare in questa direzione, ma è come se, a un certo punto, il limite critico venisse superato, e il risultato di questa disintegrazione del passato finisse con l’essere un terreno brullo, dove tutto pretende di essere uguale a tutto, e tutto si rappresenta nella veste di una algida razionalità strumentale. Insomma, una perdita di identità, senza la conquista di un’altra. Uno spazio senza storia, che va perdendo i propri agganci passionali, o li recupera nell’orizzonte ridotto e regressivo delle piccole patrie; o pensa di riconquistarli, immaginando la fisionomia del mondo posta in un universalismo privo di sostanza e di conflitto, un cosmopolitismo adeguato alla propria identità perduta.



Dinanzi a questa Europa, d’improvviso, si spalanca l’abisso, che si stenta a riconoscere e a chiamare con il suo nome. Onde interminabili di dibattiti nominalistici, interminabili discussioni sulla natura del nemico, se si sia incattivito per strada e per nostre colpe, o se sia nato cattivo. Discussioni interminabili, nelle quali la parola “Islam” spesso non si può pronunciare, anche se si sa bene che è all’interno di un fondamentalismo religioso – che, certo, coinvolge solo una parte di una confessione religiosa - che giovani, e giovanissimi, possono consapevolmente sacrificare la propria vita, morendo pur di provocare la morte dell’“infedele”, il sintomo di una totale alterità.



E così, mentre si discute sulla natura del nemico, visioni fanatiche e premoderne si ripropongono con una durezza estrema, provengano, quelle visioni, da “altri” mondi, o da entità covate nello stesso seno di Europa. Esse si presentano con il volto di una violenza priva di ogni limite In realtà, il nodo è di una drammatica semplicità, ed è intorno alla questione se l’Europa possa riprendere coscienza di sé, ridarsi un significato. Ma non – come si dice con attitudine retorica che solo la comunicazione politica superficiale giustifica - nell’orizzonte soddisfatto di valori consolidati, bensì nella capacità di riconquistare, nella propria coscienza, il senso di quella forza che “nasce dalla ragione”: in essa vanno riscritte e rivissute idee, miti, passioni, speranze, spazi concreti, che possono ridar significato alla storia del continente.



L’Europa deve perciò rinascere se non vuole affondare nel vuoto delle proprie fondamenta. Non mi riferisco qui al pur essenziale tema della guerra, non compete a me giudicare di opzioni strategiche, bensì alla riconquista politica di una coscienza di sé: protagonista di un “grande spazio”, non di un universalismo privo di sostanza. Chi sa, forse proprio l’abisso che le si sta spalancando davanti può essere la ragione perché ciò avvenga. A estremo pericolo, può corrispondere un principio di salvezza, come dice il poeta.