L'eccellente normalità degli uomini buoni

di Stefano CRISTANTE
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Sabato 21 Novembre 2015, 12:17 - Ultimo aggiornamento: 14 Novembre, 20:38
Ci sono persone la cui mancanza una comunità avverte subito. Lo si capisce da quanti vanno a dare l’estremo saluto allo scomparso, e dallo stato emotivo in cui si trovano. È successo così domenica scorsa per Antonio Montinaro, un medico leccese molto noto. L’espressione ricorrente che ho sentito su di lui era “un uomo buono”. Ma cosa significa essere buoni nei nostri tempi?



Osservando la biografia del dottor Montinaro si viene messi nelle condizioni di apprezzare il curriculum degli studi universitari sostenuti a Pavia e la carriera intrapresa a Lecce, dove ha fondato e diretto il reparto di cardiologia interventistica ed emodinamica presso l’ospedale Vito Fazzi (ora intitolato a suo nome) fino a una manciata di mesi fa, quando una malattia non negoziabile lo ha trasformato in un paziente. È stato bravo, il dottor Montinaro. Una professionalità pura, dedita alla medicina pubblica di alto livello, senza esitazioni nell’aumentarsi i carichi di lavoro. Eppure l’eccellenza raggiunta nell’esercizio della vocazione medica non è sufficiente a spiegare cosa significa essere buoni. Bisogna guardare oltre il camice e le operazioni, oltre i premi e le menzioni, oltre gli articoli sulle riviste specializzate. E rendersi conto che un medico ha un grandissimo peso sulle proprie spalle, perché la sua comunità gli si affida nel momento del massimo bisogno, quello in cui ciascuno di noi è più esposto e fragile, spaventato, angosciato.



Fondamentale è allora trovarsi di fronte un uomo buono, cioè una persona che si occupa fino in fondo di te, che ti ascolta anche se ripeti più volte la tua ansia, che cerca il tuo sorriso, che sa offrire parole comprensibili e allo stesso tempo comprensive. Qualcuno che ti dà la sensazione di aver pensato a te anche nell’intervallo tra una visita e l’altra, o prima e dopo un’operazione, come se gli fosse naturale, pur in mezzo a decine di pazienti diversi. Qualcuno che parla con te e riesce a spostare il discorso un po’ altrove, su un tasto che dà conforto, e che appena possibile menziona con entusiasmo la possibilità di una nuova strategia di cura. È evidente che la concezione stessa degli ospedali come luoghi del dolore, così fortemente radicata nella psicologia sociale della modernità, tende a modellare il personale specializzato secondo una procedura protettiva delle difese emotive individuali, irrigidendo il carattere dei medici e degli infermieri per riuscire a svolgere più agevolmente il proprio lavoro. Un certo cinismo sembrerebbe connaturato al ruolo di medico. Questa procedura protettiva non ha funzionato con il dottor Montinaro. Le persone che hanno avuto a che fare con lui parlano anzi di una persona discreta ma autentica, priva di barriere di protezione e dotata di un tatto particolare, che metteva subito a proprio agio gli interlocutori.



Antonio prendeva con estrema filosofia la propria curvatura verso gli altri: gli lampeggiava spesso nello sguardo una benevola ironia, una specie di messa in discussione delle sue stesse parole, come per circoscriverle, per attutirne il significato, per toglier loro peso.



Credo che un uomo si dimostri buono anche perché accetta la normalità del successo professionale e dei risultati scientifici: in questo senso la bontà si esprime attraverso l’umiltà, atteggiamento che significa, in sintesi, che il mondo è uno scenario molto, molto relativo, e che essere bravi è un fatto dovuto. Non solo: ma che una persona professionalmente capace ha il dovere di pensare nella logica di un team di lavoro, di una squadra, in modo da far crescere nuovi talenti e metterli a disposizione di un progetto di cura sempre più avanzato. Il risultato delle persone che pensano in questo modo è spesso uno strano sorriso ironico, che non comunica mai sfida o irrisione, ma piuttosto una comprensione della nostra condizione globale di provvisorietà. Antonio Montinaro indossava quel sorriso.



Si può essere normali ed eccellenti insieme? Solo una logica arrugginita dagli stereotipi può rispondere negativamente. Si può. È per il fatto che esistono persone curvate verso gli altri che il nostro paese si regge anche nella disfunzione e nel cattivo funzionamento. È per il fatto che esistono persone che si portano il lavoro a casa, che sono contattabili a tutte le ore, che non si fanno intimorire da un aggiornamento complicato, che rimuginano su una diagnosi difficile anche quando si comprano un cappello, è per questo fatto che una sensazione di fiducia in un miglioramento possibile non è del tutto assente in noi. Se a questo associamo una capacità di mettersi di fronte all’altro in una situazione di ricercata parità avremo un’idea del comportamento e del carattere di Antonio Montinaro.



Gli uomini che riescono nell’impresa di essere considerati nello stesso tempo capaci e buoni non si fanno largo a spintoni: il loro attivismo non è pura ambizione. È un fatto fisiologico. Perché alla fine gli uomini buoni sono quelli che nascono per una comunità, cioè con il codice genetico di valori orientati agli altri, in cui il bisogno dell’altro coincide con il loro tentativo, perché il problema è far star bene tutti, è fare in modo che il villaggio cresca. Diversi invece siamo quasi tutti noi, nati con il codice della società, del competere quotidiano, dell’affermazione di ciascuno su ogni altro, principalmente attenti a non farci fregare dal prossimo.



Il dottor Montinaro sembrava venire da un mondo diverso. Quando lo si incrociava e si scambiavano quattro chiacchiere era amabile e chiedeva notizie in coerenza con le cose dette nell’incontro precedente, dimostrando così un evidente rispetto per l’altro. Quando se ne andava, lasciava una sensazione particolare: come di aver ricevuto un abbraccio, anche se era stata solo una stretta di mano. Se ci fossero più persone come lui, viene ora da pensare, il mondo non avrebbe bisogno di alcuna rivoluzione per essere un luogo dove vivere bene.

Stefano Cristante