Come viandanti che scrutano l'orizzonte

di Antonio ERRICO
4 Minuti di Lettura
Sabato 31 Dicembre 2016, 10:23
L’Eterno che decide il tempo e il destino delle creature mortali, può negare l’istante da vivere dopo quello che si sta vivendo, ma non può riprendersi nemmeno uno solo degli istanti che si sono vissuti.
La vita che è stata concessa appartiene soltanto a chi l’ha attraversata. È l’unica proprietà che un uomo può avere; l’unica che ha un significato, che conta qualcosa. Tutto il passato appartiene alla certezza; ogni ipotesi di un attimo di futuro appartiene soltanto alla speranza, all’aspirazione, all’attesa, all’immaginazione, al desiderio. Quello che sarà si può soltanto sognare, fantasticare, e quasi sempre lo si può desiderare o fantasticare in una condizione di continuità o di contrasto con il passato.

L’anno che va e quello che viene sono la rappresentazione della certezza e della speranza, del desiderio di continuità o di contrasto. Si dice che si vorrebbe che l’anno che viene fosse come quello che è passato, se la vita che è andata ha portato contentezza; si dice che si vorrebbe fosse un po’ diverso, assolutamente diverso, se la vita che è andata è stata un po’ bene e un po’ male, se è andata come proprio non doveva andare, come non avremmo proprio voluto che andasse. Ma su come si vorrebbe che andasse, spesso abbiamo profonde perplessità.
“Oh che vita vorreste voi dunque?” domanda il “passeggere” del dialogo leopardiano. “Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti”, risponde il venditore di almanacchi.

Ecco che ritorna il sentimento dell’Eterno, dunque; ci si affida senza condizioni al suo volere, ai suoi imperscrutabili disegni. Con la consapevolezza che si vive un giorno, un’ora, un istante alla volta e una volta per tutte, e che possiamo contare soltanto sulla volta che abbiamo vissuto, e che ciascuno ha il proprio giorno e non può fare paragoni con quello di un altro, non può considerare analogie e differenze.
Gli anni che vanno contano in ragione di quello che ci lasciano dentro, che si riflette allo specchio levigato dai ricordi. Gli anni che aspettiamo contano in ragione della nostra ansia di confrontarci con l’ignoto. Siamo viandanti nel nostro tempo che cercano di scrutare l’orizzonte, di immaginare le figure di chi vorremmo incontrare, disegnare paesaggi di esistenza in cui vorremmo ritrovarci.
A volte accade che ci si chieda se abbia più senso il tempo che si è vissuto o quello che si ha da vivere ancora. Forse è una domanda oziosa; forse è una domanda banale; forse è una domanda estremamente complicata, alla quale ciascuno risponde in relazione alla propria intima esperienza del tempo, del senso che ad essa attribuisce. Anche in questo caso, il riferimento che si assume è quello del contrario. Se il tempo vissuto è stato opaco, allora si ha speranza che quello da vivere possa essere splendente; se quello vissuto è stato splendente, si ha paura che quello da vivere possa essere opaco. Ma speranza e paura sono sentimenti di cui il tempo non tiene alcun conto. Passa indifferente alle nostre speranze, alle nostre paure. Passa e lascia i suoi segni, a volte belli, a volte brutti, scava solchi o spande colori, lascia meraviglie o cicatrici. Però, a pensarci, tutti i nostri ragionamenti, le paure, le speranze, le delusioni, i progetti, sono fondati quasi esclusivamente su quello che è accaduto nel tempo che è passato, si configurano come l’espressione di uno sviluppo o di una frattura.

Hanno questo senso anche le promesse, i programmi, le prospettive, i propositi, gli intendimenti. Quello che potrebbe essere riusciamo ad immaginarlo soltanto confrontandolo con quello che è stato. Non esiste nessuna ipotesi di futuro se non come proiezione del passato. Secondo una ricerca condotta presso l’University College di Londra dalla neuroscienziata Eleanor Maguire, il passato è strettamente connesso al futuro, tanto che chi soffre di amnesia e quindi dimentica il passato, non riesce più nemmeno ad immaginare e a prospettarsi un futuro. 
Forse a quella domanda oziosa, banale, complicata, si potrebbe rispondere dicendo che il tempo che più conta è quello che ciascuno ha dentro. Il tempo di dentro è mescolanza di ogni dimensione. Il tempo di dentro è linea, cerchio, vortice, profondità, superficie, leggerezza, pesantezza, passione, armonia, disarmonia, impercettibilità e percezione, ieri oggi domani, principio e conclusione. Si potrebbe chiamare tempo dell’anima, forse. Dice Agostino nelle “Confessioni” che è nell’anima la misura del tempo, nell’impressione lasciata dalle cose mentre passano e che dura anche quando sono passate. Poi dice: “E allora: o questo è il tempo, o io non misuro il tempo”.
Gli anni vanno e vengono, vengono e vanno. Quelli che vanno si portano dietro tutto quello che riescono a calcare nella bisaccia. Quelli che vengono si presentano con qualche promessa di grazia.
In quella promessa di grazia noi confidiamo per dirci semplicemente buon tempo, buon anno.
© RIPRODUZIONE RISERVATA