C'è anche nuova politica nella “variante populista”

di Stefano CRISTANTE
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Sabato 22 Ottobre 2016, 15:43
Carlo Formenti è uno studioso che ama le imprese difficili. Il suo ultimo libro, da pochi giorni in libreria, si intitola “La variante populista”, un titolo da scacchista-politologo. Una variante, per chi ama gli scacchi, è una mossa inusuale, che non rientra nella casistica delle scelte consigliate. Tutto ciò che è “variante” implica complicazione, perché il canone ha già stabilito quale sia la strategia vincente. Ma, se l’estro del giocatore lo permette, la “variante” ha il grande vantaggio di sorprendere l’antagonista, insinuandosi nella trama del gioco conosciuto e proponendo un’alternativa che, se giocata con sagacia, può arrivare a profittare dello smarrimento dell’avversario.

Nel caso di Formenti il campo di ricerca rimane lo stesso da molto tempo a questa parte, da quando, giovane dirigente “operaista” nei paraggi del ’68 (un passato che riguarda anche figure molto diverse da lui, come Massimo Cacciari, Mario Tronti e Toni Negri), studiava gli aggiornamenti del capitalismo fordista e gli effetti delle lotte operaie sulla sua tenuta e il suo sviluppo. 

Mezzo secolo dopo (perché tanto è il tempo trascorso da allora) il capitalismo si è ripreso a ceffoni e carezze un predominio che sembra escludere la possibilità stessa di un’alternativa sociale. I ceffoni sono cominciati all’inizio degli anni ‘80 in Inghilterra (la premier Thatcher piega la resistenza dei minatori inglesi) e negli Stati Uniti (il presidente Reagan reprime con durezza l’agitazione nazionale dei controllori di volo): sono stati schiaffoni simbolici e fisici nello stesso tempo. 

In Italia, uno stesso risultato fu ottenuto scatenando i tecnici e i quadri Fiat contro gli operai (la famosa marcia dei 40mila a Torino, voluta da Cesare Romiti). I primi governi “neo-liberisti” pompavano con esuberanza una visione rovesciata del mondo rispetto a quella dei decenni precedenti: era il lavoratore a dover dimostrare di essere utile al sistema economico, assoggettandosi all’idea che un’eventuale povertà non potesse che essere imputata al proprio scarso rendimento o inettitudine. Le carezze arrivavano invece sulle ali della tecnologia, che promette non solo vantaggi e comfort materiali a poco prezzo, ma che si presenta addirittura con il progetto di un simul-mondo (internet) dove le idee e le intraprese non attendono altro se non una condivisione, un profitto morbido e naturale fondato sull’intelligenza dello sciame, di tutti i connessi alla grande rete.

Di fronte a questa potente trasformazione globale, i movimenti progressisti non capiscono molto bene in quale direzione andare. Scambiano l’ottimismo del capitalismo 2.0 per un richiamo alla ragionevolezza politica e inventano una terza via (Bill Clinton e Tony Blair) che rappresenta, nell’analisi di Formenti, un modo per gestire il nuovo capitalismo nella direzione complessiva voluta dalle grandi forze del mercato, addolcendo però il percorso con tanti bob bon costruiti sull’idea che i diritti della “persona” siano incomprimibili e anzi in aumento. La stessa costruzione europea viene interpretata come un dispositivo messo a disposizione degli animal spirit del neo-liberismo per impreziosire un cambiamento socio-economico che punta a una nuova antropologia: l’uomo nuovo del terzo millennio prende le mosse da un lavoro precario di massa che viene spacciato come “immateriale” e che invece è “digitale”, terribilmente concreto nel suo gioco tragico di sopravvivenza attivo 24 ore su 24, eliminando la differenza tra tempo di lavoro e tempo di vita. 

Infatti - nota a questo punto Formenti costruendo la base d’appoggio del suo azzardo teorico - le fondamenta della società dell’informazione sono imbevute di disuguaglianze inimmaginabili pochi anni fa. L’accettazione del fatto che una manciata di super-ricchi possieda metà delle ricchezze globali significa che i ceti popolari non sono più classe media, ma gruppi eterogenei a minaccia povertà, i cui destini non possono che essere considerati inversamente proporzionali a quelli dell’élite protagonista della finanziarizzazione dilagante dell’economia.

Ed ecco la variante “populista”: a differenza di molti studiosi che vengono dall’antico campo comunista e operaista, Formenti non si dimostra schizzinoso verso i nuovi attori e i nuovi simboli della politica, perché la contraddizione non è orizzontale (destra/sinistra) ma verticale (alto/basso). Questa seconda coppia dicotomica ragiona su un “campo populista” molto più ampio e articolato di ciò che viene descritto con rozza elaborazione come “anti-politica”. Al contrario, per Formenti si tratta di cogliere le differenze tra le successive ondate di populismo già verificatesi negli ultimi vent’anni (in casa nostra si tratta del berlusconismo e del leghismo), riconoscendo un valore positivo alla rottura con le socialdemocrazie e con le terze vie da parte di “nuovi barbari” dell’ultima generazione populista che l’autore descrive come comunità del rancore, cioè come l’insieme degli esclusi e dei perdenti della globalizzazione.

La variante populista consente a Formenti di formulare l’auspicio (partendo dallo studio di alcuni populismi sudamericani, in particolare ecuadoriano e boliviano) che all’interno del disegno anti-elitario possa esserci spazio per una nuova attualizzazione della lotta di classe: l’attenzione è rivolta a Gramsci e ai suoi strumenti intellettuali (“blocco sociale, egemonia, guerra di posizione, farsi Stato delle classi subordinate, ecc.”), sottraendo autorevolezza a chi ha voluto estrapolare da Gramsci una sorta di nuova “autonomia del politico” (soprattutto il teorico Ernesto Laclau, autore di un libro molto discusso anche in Italia, “La ragione populista”). Una lettura di Gramsci che va attivata proprio quando il mondo dei “flussi” (il capitalismo digitale) si trova davanti l’arcipelago dei “luoghi”, cioè di tutti gli spazi in cui rinasce il bisogno di comunità. Ne emerge una visione politica che non ammette ingenuità e che è disposta a considerare l’accelerazione imposta dalla globalizzazione senza pregiudizi ideologici (detto con un esempio estremo: siamo proprio sicuri che le posizioni di Hillary Clinton in politica estera siano più tranquillizzanti di quelle di Trump?).

La ricerca teorica di Formenti accetta di ballare sull’onda del populismo con tutti i rischi del caso, perché l’onda è grossa e imponente, e spesso appare non-cavalcabile. D’altronde, chi credeva di combattere il neo-liberismo sul suo stesso terreno è diventato indistinguibile da esso. È tempo, per Formenti, che il pensiero radicale cerchi nuove dimore.
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