Lotta per salvare l'università pubblica. Ecco perché i prof scioperano

Lotta per salvare l'università pubblica. Ecco perché i prof scioperano
di Francesco FISTETTI
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Mercoledì 30 Agosto 2017, 17:06
Sullo sciopero dei professori universitari, che si svolge dal 28 agosto al 31 ottobre solo nella prima sessione degli esami autunnali, si è scatenata sui social una canea spaventosa, fatta di insulti, denigrazioni, falsità, un vero e proprio festival di “fake news”, su cui vale la pena soffermarsi un momento per cercare di comprendere da dove nasce un fenomeno come questo e di quale patologia sociale è il sintomo. Anzitutto la verità dei fatti. Molti giornali correttamente ne hanno parlato, ma non è inutile un’ulteriore sottolineatura. La proclamazione dello sciopero non è stato un atto improvvisato o gratuito, ma è giunta dopo una lunga serie di tentativi di interlocuzione con il Ministero e con i governi succedutisi negli ultimi tre anni. Protagonista è stato il Movimento per la Dignità della Docenza, fondato dal professor Carlo Ferraro del Politecnico di Torino, che ha tessuto pazientemente la tela dei contatti tra tutti i docenti dei 79 atenei italiani. Fino ad ottenere dal Garante il via libera allo sciopero, di cui non intendo ripetere qui le modalità di svolgimento, che ieri questo giornale ha ampiamente riportato.

E che non è affatto uno sciopero corporativo, ma ha un respiro generale dal momento che si rivolge a tutti gli strati sociali affinché prendano coscienza di quanto sta succedendo nell’università italiana. Due sono, infatti, i punti che vanno sottolineati con forza. In primo luogo, gli studenti hanno tutto da guadagnare da un’alleanza con i professori attorno all’obiettivo di una università pubblica capace di garantire il diritto non ad un pezzo di carta formale, ma ad una formazione di qualità la più elevata possibile. In una società globalizzata in cui le disparità tra ricchi e poveri vanno diventando sempre più abissali, e in cui la ricerca scientifica tende a concentrarsi nelle mani delle grandi multinazionali, la lotta per una buona università pubblica si pone come un’emergenza sociale, intellettuale ed economica non meno importante di emergenze di altro tipo come i terremoti o la gestione dei flussi migratori. Nella questione universitaria, a ben guardare, è in gioco l’intelligenza generale di un Paese, il sistema delle competenze, l’organizzazione dei saperi, il rapporto tra società e ricerca scientifica (non solo tecnologica, ma anche umanistica: si pensi alla ricerca sociale ed ambientale).
In una parola, è in gioco lo Stato democratico come complesso di istituzioni, nell’efficienza delle sue prestazioni e nella garanzia universale dei diritti di cittadinanza. Solo che queste dimensioni pubblico-politiche ed economico-sociali non sono immediatamente visibili, anche perché viene alimentata artatamente una campagna denigratoria che addita nell’università un’enorme sacca di parassitismo, una sorta di zona franca o un eldorado per scansafatiche. Eppure, come ha dimostrato Gianfranco Viesti, anche su questo giornale, il definanziamento delle università pubbliche ha accentuato i divari regionali. Ciò ha costretto le università pubbliche a ricorrere a finanziamenti privati: un fenomeno in sé per nulla negativo, ma che penalizza in particolare le università del Mezzogiorno, dove il sistema delle imprese è non solo più gracile, ma in gran parte riluttante ad investire in ricerca e sviluppo.

E come è possibile internazionalizzare la ricerca e la didattica se non si hanno risorse minimamente adeguate per allestire o ammodernare strutture, laboratori, biblioteche? Se il numero dei professori diminuisce ogni anno senza che vengano sostituiti? Come promuovere una sana competizione tra ricerca pubblica e ricerca privata, se chiudiamo o ridimensioniamo il polo pubblico della formazione scientifica? Le quali dovrebbero, invece, cooperare in progetti comuni di pubblica utilità, se ci fosse una cultura non feticistica del mercato. Nella vulgata corrente l’università è vittima dei pregiudizi più ingenerosi ed è difficile rimettere nella giusta prospettiva un problema così rilevante per l’interesse generale e il bene comune. Tanto più che a indebolire l’università pubblica sono state responsabili, in vari modi e in tempi diversi, destra e sinistra: da Berlusconi a Renzi non c’è stata nessuna soluzione di continuità.

Il feticcio a cui entrambe hanno sacrificato l’università pubblica è la logica del mercato (il profitto a tutti i costi); il resto – la dignità della persona, la giustizia sociale, le capacità e i talenti personali – è stato gettato alle ortiche. Anzi, se volessimo segnalare una nota di novità rispetto al passato, essa sta nel clima politico avvelenato che la corsa al populismo ha ulteriormente esacerbato in prossimità delle prossime scadenze elettorali. Sta montando nel Paese un’onda limacciosa di risentimento, odio, rancore, disprezzo dell’altro, che va alla ricerca del capro espiatorio, su cui riversare quest’accumulo di violenza, che per il momento è solo simbolica, ma che prima o poi può sfociare nel sangue. Il capro espiatorio ora è il migrante considerato una minaccia per la comunità, ora il politico di professione bollato tout court come malfattore, ora il giornalista identificato di per sé come un prezzolato, ora il professore universitario che godrebbe di privilegi ingiustificati. E così via all’infinito in una spirale che, come aveva dimostrato l’antropologo René Girard, cancella tutte le differenze esistenti a favore di un’unità indifferenziata ed omogenea, che, aggiungiamo noi, nelle società globalizzate è il terreno di coltura su attecchisce un regime totalitario.
 
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