UniSalento, terapie errate se si sbaglia la diagnosi

di Ferdinando Boero
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- Ultimo aggiornamento: 10 Febbraio, 06:00
Siamo tutti allenatori della nazionale. Non mi interesso di calcio, ma non faccio certo eccezione. Mi interesso di ricerca scientifica e di didattica universitaria e ho la magica ricetta per risolvere i problemi che le affliggono! Prima della terapia, però, ci vuole la diagnosi. La nostra Università produce laureati appetibili per i paesi “avanzati”. Ogni anno emigrano a migliaia: gli altri paesi sanno come utilizzarli, il nostro no. Investiamo soldi nella loro formazione, e poi li regaliamo a chi ci fa concorrenza. Scappano i precari, e i nostri ministri dicono che non sono lavoratori: sono in formazione. Facciamo finta che sia vero, per assurdo.

Gli stipendi dei precari derivano da progetti: senza progettualità, sono in mezzo a una strada. E quindi spendiamo i soldi della ricerca per formare in modo ancora più valido i futuri ricercatori. Poi non diamo loro alcuna occasione di entrare nel mondo del lavoro, e loro emigrano. Lo spreco di denaro e di capitale umano è ancora più grave! Dire che i precari sono in formazione non risolve il problema: lo acutizza. Il problema è, scusate l’anglicismo, il top management. A capo delle aziende di stato e dei grandi settori di produzione e di ricerca, degli ospedali, vengono messe persone non scelte per merito ma per appartenenza.

Vengono “premiati” con una presidenza i trombati alle elezioni, i fedelissimi. La coda del pesce è sana, la testa puzza. La coda se ne va e viene meno la propulsione. Il sistema si sfalda. Inutile investire in una fabbrica (di cultura, conoscenza, e materiale umano di prim’ordine) se non riusciamo a vendere prodotti che, invece di arricchirci, fanno arricchire gli altri paesi. Tanto vale chiuderla. E pare che la soluzione sia proprio questa: si bloccano le assunzioni e non si rimpiazza chi si pensiona. Si innescano campagne di denigrazione che portano alla percezione che l’Università sia un cancro da estirpare, e i precari siano dei fannulloni che non crescono. Ma qualche colpa di tutto questo è anche nell’Università, non è solo frutto della stupida malvagità di qualche politico.

Ecco la mia terapia. Il top management delle università deve identificare i punti di forza della propria “azienda” facendo una serissima analisi dei “prodotti” che offre. La didattica universitaria si basa sulla ricerca. Un professore universitario deve dare contributi originali, con la ricerca, al progresso delle conoscenze che insegna. La ricerca, inoltre, porta soldi. Ma hanno odori differenti: ci sono quelli ottenuti perché si ha l’amico (e questo vale spesso per fondi distribuiti localmente), e ci sono soldi ottenuti competendo con il resto del sistema della ricerca (nel paese e in Europa). L’Italia dà moltissimi soldi all’Europa, per la ricerca. E la progettualità italiana ne riporta in patria solo una parte. Si deve creare un sistema che incoraggi la progettualità “alta”, liberando i ricercatori dalle pastoie burocratiche, snellendo le procedure interne e rafforzando l’amministrazione di supporto alla progettualità e alla gestione di fondi europei.

Non è quello che sta avvenendo. Per risollevare le sorti dell’università si intraprendono imprese fallimentari di offerta didattica non basata su solidissima ricerca, e si soffocano le aree in cui si ottengono risultati, se chi le esprime non rientra nel giro di “amicizie” del top management. Le Università che capiranno la strada da seguire, e valorizzeranno i loro punti di forza, puntando su di essi per la didattica di alto livello, ce la faranno. Le altre saranno declassate ad esamificio, e la ricerca si baserà solo su finanziamenti ottenuti per vie amicali. Ogni Università italiana, oggi, deve decidere del proprio futuro. Forse il sistema universitario necessita di un ridimensionamento (anche se io penso che necessiti di riqualificazione) e resisteranno solo le università più forti, quelle che sapranno come reagire alle sfide della qualità. Ah, non vorrei sentire le solite lamentele del sud penalizzato.

Non è così. Il sud ha ricevuto finanziamenti enormi e si è dotato di infrastrutture faraoniche. Spesso si tratta, però, di cattedrali nel deserto. I soldi per gestire queste infrastrutture dovrebbero derivare da progettualità “alta” e diffusa in tutto l’ateneo. Invece si strangolano i pochi che la fanno, per mantenere strutture che non producono gran che. Il risultato sarà che i pochi che lavorano ad un certo livello se ne andranno nelle Università che hanno “capito” e che sono in cerca di rinforzi. Quelle che non capiscono saranno declassate, come minimo accorpate ad Università vicine, o addirittura chiuse. I tempi sono stretti. Queste cose stanno già avvenendo e le Università che non avranno reazioni decise e incisive avranno un futuro nero. Le proposte di didattica velleitaria saranno bocciate, i ricercatori più validi se ne andranno, e resteranno solo tanti “amici”. Che attribuiranno i propri fallimenti alla collocazione geografica, e alla malvagità dei competitori.
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