Ttip, rompere il silenzio sul trattato che cambierà la nostra vita

di Stefano CRISTANTE
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Sabato 30 Aprile 2016, 17:45
Quando si vogliono disciplinare i rapporti tra due o più stati si redige un trattato. “Tractatus” è un’antica e nobile parola latina che deriva dal verbo “tractare”, ovvero “occuparsi di qualcosa”, e di conseguenza “discorrerne”, “ragionarne”. La storia europea conosce bene i trattati: da quello remoto di Anagni del 1295 (che mise fine ai Vespri siciliani) a quello di Maastricht del 1993 (parametri economici necessari per l’ingresso nell’Unione Europea), i trattati hanno regolato contese territoriali, creato collaborazioni economiche e sancito egemonie commerciali.
Il nome con cui bisogna familiarizzare ai nostri giorni è una sigla, non particolarmente elegante: Ttip. Molti giornali ne hanno già fatto cenno, e Quotidiano tra essi. Tuttavia occorre ammettere che siamo solo agli inizi di una vera discussione pubblica, tanto è vero che la sigla Ttip è ancora sconosciuta ai cittadini. Sta per Transatlantic Trade and Investment Partnership, tradotto solitamente in Trattato di libero scambio fra Stati Uniti ed Europa. La traduzione letterale è “Collaborazione per il commercio e gli investimenti transatlantici”.
Ecco così maggiormente precisato l’oggetto del trattato. Non è poco, anzi è moltissimo: l’obiettivo è normare scambi commerciali il cui valore è stimato in centinaia e centinaia di miliardi di euro.
Perché proprio in questo momento storico gli Stati Uniti e l’Unione Europea vogliono redigere un trattato che viene già definito epocale? Per razionalizzare l’incidenza delle burocrazie e dei dazi, che rendono faticose e scarsamente convenienti importazioni ed esportazioni. Per fare in modo che le aziende, in particolare quelle di grandi dimensioni e multinazionali, possano ridurre i costi di adeguamento agli standard del partner. Ma soprattutto perché la prima ondata di globalizzazione è finita, e con essa la convinzione che – allargandosi a dismisura il mercato – i paesi emergenti avrebbero fatto da jolly per la crescita mondiale. La Cina, l’India, il Brasile e gli altri giganti del terzo mondo avrebbero offerto bassi e bassissimi salari per la manifattura dei marchi globali, facendo balenare la prospettiva di un management occidentale nutrito dalle plusvalenze di una de-localizzazione i cui costi sarebbero stati pagati dalle classi lavoratrici occidentali. La crescita graduale di un’élite dei paesi in via di sviluppo avrebbe compensato la formazione di un precariato occidentale sempre più esteso, perché le nuove classi dirigenti extra-occidentali sembravano in grado di gestire a loro volta forme di investimento (in particolare finanziario) nei paesi occidentali. Il piano insomma era sempre lo stesso delle fasi classiche dell’espansione capitalistica: meno regole possibili e liberare le energie del mercato. La crisi del 2008 ha bruciato l’idea di una regolamentazione spontanea: i danni sistemici dell’egemonia del capitale finanziario sono ferite aperte in tutti i paesi moderni del mondo. Ma non solo in essi: anche chi sembrava inarrestabile nella produttività e nella crescita del Pil, come la Cina, sta frenando. Mentre si aprono crepe nella tenuta del regime poliziesco nelle fabbriche dell’entroterra e i salari aumentano per evitare rivolte e ribellioni, l’invasione delle merci cinesi nel mercato mondiale prende strade trafficate e semi-illegali, mantenendo la sua competitività grazie ai prezzi stracciati. Ecco perciò che il trattato Ttip nasce da esigenze di razionalizzazione ma si fonda su esigenze difensive. Stati Uniti ed Europa stringerebbero un patto che, abbattendo gli ostacoli alla completa collaborazione economica, aumenterebbe l’autorità del nuovo gigante euro-statunitense rispetto ai competitori internazionali, a cominciare dalla Cina. Ma qual è esattamente il soggetto protagonista di questa operazione? Sono le aziende e i marchi più importanti. Il Ttip non si occupa solo di dazi e standard, ma di ciò che viene definito “profonda armonizzazione normativa”. In poche parole, il Ttip si definisce in un mercato globale e nello stesso tempo dentro uno scenario interno: le aziende, questa è la filosofia del trattato, devono poter competere anche nella dimensione euro-statunitense, senza cancellare il concorrente per via di legislazioni differenti. Si scrive “differenti”, ma si potrebbe leggere “più rigorose”. In materia di prodotti alimentari, per esempio, diversi prodotti americani sono invendibili in Europa perché nell’Unione non passerebbero i controlli di qualità. C’è già chi teme l’ingresso nei nostri supermercati di prodotti Ogm, che negli Stati Uniti sono leciti, così come le massicce dosi di estrogeni nella carne. Tuttavia il punto che mi preme di più sottolineare è un altro: in un numero crescente di paesi europei il Ttip non è un illustre sconosciuto. A Berlino dieci giorni fa si è svolta una manifestazione imponente contro il trattato. Al di là del numero dei manifestanti (oltre 100 mila), ciò è indice di una forte presenza di comunicazione e di informazione, stimolata dai media che – come è normale che sia – stanno addosso alle questioni su cui l’opacità domina sulla trasparenza. Perché la verità è questa: che del Ttip vengono tenute segrete le discussioni e le bozze di determinazione. Al tavolo siedono gli Stati Uniti e l’Europa (ora la Presidenza Obama e la Commissione Europea, cioè l’esecutivo), ma gli scommettitori, intorno a loro, sono soprattutto le grandi multinazionali. Una fiumana di lobby e gruppi di interesse gravita intorno alla stesura del Ttip, le cui formulazioni riguarderanno l’alimentare, i pesticidi, il tessile, il farmaceutico, la cosmetica, le apparecchiature mediche, e così via. La giurisprudenza del lavoro non potrà non esserne modificata: forme di assunzione più o meno costose saranno messe a confronto, e la priorità andrà alle opportunità di profitto. Nel frattempo il Ttip inventa nuovi reati: le imprese che dovessero sentirsi defraudate dei loro profitti per via di legislazioni nazionali sfavorevoli potranno ricorrere a speciali tribunali extra-territoriali composti di tre giudici, uno scelto dall’azienda, uno dallo Stato e un terzo dai primi due. L’odore è di allontanamento dalle pratiche democratiche consolidate. Per questo è fondamentale che l’informazione sul Ttip prenda a circolare davvero: il lavoro dal basso è partito (associazioni, movimenti, comitati, sindacati, persino alcune amministrazioni comunali). Manca quello dei mezzi di comunicazione di massa, così attenti a ogni minimo gesto dei leader politici nostrani e così distratti verso negoziati (chiusura prevista: dicembre 2016) che potrebbero modificare profondamente la vita di tutti.
 
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