“Trappist-1" e il sogno di un nuovo inizio del genere umano

“Trappist-1" e il sogno di un nuovo inizio del genere umano
di Stefano CRISTANTE
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Sabato 25 Febbraio 2017, 16:52
Gli astronomi belgi lo hanno chiamato Trappist-1, in omaggio a un ordine religioso e soprattutto a uno dei migliori prodotti del luppolo della loro terra. Trappist-1 è una “stella nana rossa”, qualcosa di simile al nostro sole, intorno cui orbitano sette pianeti che potrebbero avere acqua, cioè possibilità di vita. La distanza della Terra da questo sistema solare è calcolata in meno di 40 anni luce, una distanza galatticamente non proibitiva, anche se ancora enorme rispetto alle capacità tecnologiche dei terrestri. Tanto per capirsi: il gelido Plutone, ancora gravitante attorno al sole ma assai distante dagli altri pianeti, è a 5 ore e 24 minuti (luce) da noi.
L’attenzione dei media e dell’opinione pubblica verso la scoperta astronomica non è perciò dovuta all’immediatezza della perseguibilità tecnica di un viaggio interstellare. La risonanza comunicativa è dovuta all’impatto con l’immaginario collettivo della nostra epoca, a come questa notizia interviene nelle nostre conversazioni e nelle nostre riflessioni collettive, articolate in milioni di pensieri individuali. L’appetibilità non è tanto dovuta alla conferma che nelle immensità dell’universo potrebbe annidarsi la vita, quanto piuttosto al fatto che la notizia ci spinge a ragionare su chi siamo noi come specie, e che cosa ci stiamo facendo qui.
“Una specie di mammifero di grossa taglia”, come scrive lo scienziato Jared Diamond nel suo bellissimo lavoro Il terzo scimpanzé (Bollati Boringhieri, 2015), cioè la specie homo sapiens, cioè noi, è diventata la specie dominante del pianeta. In un crescendo vorticoso, noi sapiens abbiamo cambiato la faccia della Terra, giungendo a processi di radicale trasformazione negli ultimi tre secoli. I pochi cosmonauti che hanno avuto il privilegio di vedere la Terra dall’alto hanno parlato di un pianeta azzurro.
Da quelle altezze non si vede ciò che abbiamo fatto alla Terra, e il colore del mare, acceso dalla luce solare, crea una sorta di pace visiva intorno al pianeta. Più ci si abbassa, però, più emergono masse di inquinamento e di avvelenamento, fumi industriali, discariche, opere insensate che restano però eternamente insediate nel territorio, baraccopoli di milioni di abitanti, e, più recentemente, rivolgimenti del tempo inattesi, dovuti al cambiamento climatico indotto dai comportamenti anti-ecologici dei terrestri. Emergiamo inoltre noi come individui (1 miliardo e mezzo nel 1900, 7 miliardi e mezzo oggi), con l’enorme fabbrica degli animali a noi collegati e da noi (spesso barbaramente) industrializzati (circa 24 miliardi).
Per questo appena si è diffusa la notizia dell’avvistamento di Trappist-1 quasi tutti abbiamo pensato automaticamente la stessa cosa, e cioè che – da qualche parte – potrebbe essere offerta la possibilità di un nuovo inizio al genere umano. Il sottotesto di questo pensiero è che siamo a un passo dal fallimento come specie, che si verifica quando un animale, distruggendo il proprio habitat, annienta fatalmente anche sé stesso (Jared Diamond parla di “collasso di civiltà”). La misurazione e l’adattamento al rischio del “passo fatale” dovrebbe essere il compito storico delle generazioni che sono nate nella seconda parte del ‘900 e all’inizio del nuovo secolo: fare in modo che il programma che il pianeta si è dato per esistere (la natura) non sia malamente riprogrammato dalla specie sapiens.
Eppure dobbiamo essere onesti con noi stessi: questa sensata preoccupazione è solo una parte della suggestione che ci deriva dall’individuazione di Trappist-1 e dei suoi sette pianeti. C’è anche un consistente flusso di pensiero che un genere letterario, la fantascienza, ha generato negli ultimi due secoli. Dopo le sontuose intuizioni di Jules Verne e le allarmanti isole del dottor Moureau di Herbert George Wells, la fantascienza ha proposto una dimensione spettacolare dell’esplorazione galattica.
C’è stato il periodo in cui la fantascienza si è espressa attraverso i fumetti, prima con il magnifico liberty del Buck Rogers di Dick Calkins (un ingegnere che si risvegliava nel 2419 da una catalessi in cui era caduto nel 1929), poi con il realismo enfatico del Flash Gordon di Alex Raymond (1934). Flash, di gran lunga più conosciuto, portò i giovani lettori delle strisce a fumetti a spasso per le galassie, dove stirpi antropomorfe combattevano battaglie interplanetarie secondo un canovaccio “impero versus ribelli” che ritroveremo in luoghi di culto della postmodernità cinematografica come Guerre Stellari o Matrix. C’era il super-tecnologico pianeta Mongo, dove regnava il perfido imperatore Ming sulla propria gialla stirpe. Gialli erano i nemici di Flash e rossi (ma cinesi, anzi mongoli) quelli di Buck Rogers: una delle ossessioni più radicate negli Stati Uniti dell’epoca, visti i tassi impressionanti di migrazione asiatica verso l’America e il pauroso fronteggiarsi etnico-politico che sarebbe sfociato nel carnaio della seconda guerra mondiale. La scoperta di Trappist-1 ci riconnette all’immaginario di quel tempo, cioè alla grande crisi del ’29. Anche in quell’epoca la recessione economica sembrava inarrestabile. Anche in quell’epoca la tecnologia sembrava la via salvifica ma, nonostante le ecatombi di guerre sempre più tecnologiche, il nostro mondo è andato proprio in quella direzione.
Si è anzi costituito un mondo tecno-scientifico che non conosce pause elaborative all’interno del nuovo paradigma digitale, e che ogni giorno incrementa le sue possibilità, intensificate dai media. In una stessa settimana l’immaginario collettivo ha incollato l’uno sull’altro i files dei sette pianeti, del robot in casa presto a disposizione degli anziani e della speranza di vita ordinariamente centenaria che sarebbe a portata di mano. Mentre il mondo si dibatte in una crisi economico-finanziaria e occupazionale senza precedenti, che sta moltiplicando – tra gli altri effetti nocivi – il numero di coloro che smettono di curarsi per indigenza, l’immaginario planetario costruisce dentro di noi un’idea contro-intuitiva di fiducia nella Tecnica. Fino a che la nostra mente disgiungerà le immagini della Tecnica da quelle delle nuove emergenze sociali (disuguaglianze, disoccupazione e povertà) avranno avuto ragione gli scrittori di fantascienza del secondo ‘900, Dick, Asimov, Bradbrury, Clarks: il futuro è terribilmente simile al presente e alle sue ingiustizie, sommato a tecnologie più potenti. Ma la Tecnica è disinteressata all’evoluzione sociale.
Per questo bisogna spingere a una riflessione di massa su ciò che vogliamo dalla Tecnica, su quali sono le domande fondamentali e le priorità che il genere umano richiede alla sua organizzazione tecnico-scientifica. Se non lo faremo, il rischio è un giorno di addormentarci sapiens e di risvegliarci alien, magari sulla prima colonia di Trappist-1.
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