Professionisti del terrore
dietro ai fanatici del Jihad

Professionisti del terrore dietro ai fanatici del Jihad
di Gianandrea GAIANI
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Martedì 22 Agosto 2017, 15:57
L’esplosivo artigianale TATP (perossido di acetone) fatto in casa e trovato nel covo dei terroristi di Barcellona avrebbe dovuto far deflagrare fino a 120 bombole di gas che il gruppo aveva immagazzinato, un dettaglio che dovrebbe alimentare qualche sospetto. Nella vicenda terroristica catalana ha fatto scalpore la giovane età dei terroristi, quasi tutti tra i 18 i 28 anni, in un’Europa ormai abituata a definire “ragazzi” anche gli ultra-trentenni. In un’ottica militare, come quella utilizzata dallo Stato Islamico che definisce “soldati” i terroristi, si tratta però dell’età giusta per “combattere”, come dovremmo ricordare anche noi italiani che nel 1917 richiamammo alle armi la classe 1899 per disporre di “carne fresca” dopo la disfatta di Caporetto e nella fase finale della Prima guerra mondiale.

Più dell’età “da soldato” contano però le qualifiche, cioè le capacità acquisite: nelle forze armate vi sono 23enni con capacità di combattimento e competenze tecniche specifiche già molto marcate e questo potrebbe valere anche per i terroristi, specie se ben addestrati e sottoposti a un lungo periodo di attività operativa sui campi di battaglia del jihad, in Siria, Iraq, Libia, Sinai. Tra i terroristi della Catalogna non risultano però esserci esperti combattenti né, da quanto reso noto dalla polizia, vi sarebbero alcuni dei circa 40 foreign fighters già rientrati in Spagna su 200 che lasciarono il paese per combattere in Medio Oriente sotto le bandiere dell’Isis.

Se non ci sono dubbi circa la possibilità che carcere, web e imam salafiti (solo in Catalogna le moschee in mano a imam estremisti che predicano indisturbati lo stesso Islam di al-Qaeda e Stato Islamico sono almeno 50) possano radicalizzare giovani e farli diventare jihadisti, solo un buon addestramento alle tecniche e tattiche di guerriglia e sabotaggio e una robusta esperienza possono consentire di impiegare efficacemente armi e ordigni, di produrre esplosivi artigianali e preparare attentati dinamitardi devastanti. Fanatismo e radicalizzazione possono garantire disponibilità al sacrificio, anche quello estremo, per la causa ma non la professionalità necessaria a portare a termine con successo il proprio incarico. Il fatto che due membri della cellula terroristica catalana siano rimasti uccisi nell’esplosione del covo di Alcanar non offre per ora garanzie né sulla loro identità né sul fatto che si trattasse dei “bombaroli” della cellula.

L’esplosione, forse avvenuta per l’incauto spostamento del TATP, esplosivo noto per la sua instabilità e per la predisposizione a esplodere se movimentato senza specifici accorgimenti, potrebbe dimostrare l’assenza di personale esperto e se davvero i due terroristi rimasti uccisi sono l’imam di Ripoll, Abdel Baki Essati e Youssef Aallaa, questo potrebbe forse significare, al di là del possibile errore umano, che nessuno dei due era in grado di produrre e gestire l’esplosivo.

Resta quindi il dubbio che la cellula sia stata sgominata ma uno o più esperti nel produrre e impiegare il TATP potrebbero essere ancora in libertà e lontani dalla Catalogna. La presenza di così tante bombole di gas indicava la volontà di colpire in tre luoghi diversi simultaneamente con una grande capacità deflagrante: un’azione complessa e ambiziosa che lascia immaginare una capacità tattica che stride con superficialità e dilettantismo dimostrati da molti componenti della cellula.

Possibile quindi che dietro agli uomini catturati o uccisi, dietro alle cellule di fanatici spendibili sul fronte del jihad, vi sia uno zoccolo duro di professionisti del terrore, probabilmente veterani dei campi di battaglia in Iraq e Siria incaricati di addestrare i giovani jihadisti, produrre esplosivi, indicare gli obiettivi e come colpirli.
Uomini esperti e per questo non sacrificabili per l’organizzazione terroristica, che li preserva invece di “bruciarli” in azioni a fuoco anche eclatanti ma che finirebbero inevitabilmente con la morte o la cattura dei suoi componenti.

A ben guardare sono sempre più rari i casi in cui le cellule terroristiche che agiscono in Europa risultano composte da foreign fighters rientrati dalla guerra in Medio Oriente. Eppure dei circa 5/6 mila combattenti che secondo l’Europol sono partiti dall’Europa circa la metà sarebbero già rientrati e di questi solo pochissimi sono agli arresti.

Certo il loro rientro non è passato inosservato ed è facile immaginare che vengano tenuti sotto controllo ancor più dei cosiddetti “radicalizzati”, ma stupisce che di fronte a un rientro così massiccio in Europa (per giunta affrettato rispetto alle previsioni dei servizi di sicurezza a causa del tracollo militare dell’Isis in Siria e Iraq) i foreign fighters di ritorno non siano i protagonisti della recrudescenza degli attacchi terroristici.

Una possibile spiegazione è riposta nell’utilizzo della loro esperienza bellica come istruttori e consiglieri dei “soldati” impiegati per attaccare l’Europa. Lo Stato Islamico potrebbe così capitalizzare il valore dei suoi “veterani” impiegandoli come moltiplicatori di forze per scatenare il terrore in un’Europa che non si è ancora messa d’accordo su come definire i ”combattenti stranieri” e come punire penalmente i veterani del jihad. Se così fosse, e le indagini catalane potrebbero confermarcelo presto, smantellare le cellule non sarà sufficiente.
 
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