Taranto e Lecce i verdetti e le partite in gioco

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Martedì 13 Giugno 2017, 11:42 - Ultimo aggiornamento: 22:03
È opinione diffusa, dopo i risultati delle amministrative di domenica, che l’Italia abbia riscoperto lo schema bipolare centrodestra-centrosinistra. Certo, il M5S conquista percentuali deludenti e, in alcuni casi, addirittura marginali (clamoroso il tonfo di Lecce), restando fuori dalla stragrande maggioranza dei ballottaggi, quasi ovunque appannaggio dei due poli tradizionali. Tuttavia, anche per la consistenza del test elettorale, sarebbe azzardato non solo considerare già finita l’onda lunga dei cinquestelle, ma anche stabilire un collegamento diretto con le recenti elezioni in Europa che hanno visto rifluire le forze anti-sistema, populiste e dell’antipolitica. È vero che un anno fa il movimento di Grillo conquistò città importanti come Roma e Torino, dimostrando di essere competitivo anche nelle elezioni locali, ma il test delle amministrative non è il campo dove i pentastellati danno il meglio di sé, anche per le troppe faide interne sulla scelta dei candidati a sindaco. Sarebbe, perciò, fin troppo affrettato il giudizio di una fine prematura del tripolarismo sul piano nazionale, anche in considerazione del fatto che il sistema elettorale a doppio turno tende naturalmente a “bipolarizzare” i voti.
Tuttavia, anche per la consistenza del test elettorale, sarebbe azzardato non solo considerare già finita l’onda lunga dei cinquestelle, ma anche stabilire un collegamento diretto con le recenti elezioni in Europa che hanno visto rifluire le forze anti-sistema, populiste e dell’antipolitica. È vero che un anno fa il movimento di Grillo conquistò città importanti come Roma e Torino, dimostrando di essere competitivo anche nelle elezioni locali, ma il test delle amministrative non è il campo dove i pentastellati danno il meglio di sé, anche per le troppe faide interne sulla scelta dei candidati a sindaco. Sarebbe, perciò, fin troppo affrettato il giudizio di una fine prematura del tripolarismo sul piano nazionale, anche in considerazione del fatto che il sistema elettorale a doppio turno tende naturalmente a “bipolarizzare” i voti.
Anche in Puglia si è delineata questa cornice generale, con una polarizzazione dei consensi verso il centrodestra e il centrosinistra. Soltanto in tre comuni - Mottola, Sant’Eramo e Canosa - il M5S va al ballottaggio: in tutti gli altri, i sindaci saranno espressione del centrodestra, del centrosinistra o di movimenti civici comunque riconducibili a uno dei due poli.
I risultati di Taranto, da questo punto di vista, sono emblematici. Nella città jonica c’erano tutte le condizioni per un successo delle aree esterne ai due poli tradizionali. La giunta uscente, di centrosinistra, a detta di tutti non è stata certo un esempio di buongoverno, mentre il Pd è rimasto dilaniato da profonde divisioni interne, esplose al momento delle candidature. Il centrodestra non ha brillato per iniziativa politica e capacità di proposte alternative. Le inchieste sull’Ilva in corso hanno coinvolto segmenti del ceto politico e amministrativo, senza dimenticare che il “racconto” di questi anni sulla sorte del siderurgico sembrava favorire le forze radicali del “partito della chiusura subito”, senza se e senza ma. La stessa frammentazione delle candidature (con il record di dieci aspiranti sindaci e la pletora di liste civiche) faceva prefigurare un’implosione dei due poli. Invece, al ballottaggio vanno Baldassari, che contesta la definizione di candidata del centrodestra e che tuttavia è collocabile in quell’area elettorale, e Melucci, candidato ufficiale del Pd. Escono sconfitti dalle urne, rispetto alle attese della vigilia, il M5S, dato alla vigilia come sicuro partecipante almeno al ballottaggio e superato anche dal movimento di Cito, e le forze dell’ambientalismo “duro e puro”. C’è chi ha parlato di vittoria del “partito dell’Ilva”. Esagerato forse, ma sicuramente non ha vinto l’urlante “racconto” di questi anni di una Taranto che non aspetta altro che la chiusura dell’Ilva. Le sorti del ballottaggio si giocheranno ora su due fronti: da un lato, la capacità della Baldassari di ricucire un minimo di rapporto con Cito e il suo elettorato (12,4%), dopo i duri scontri in campagna elettorale; dall’altro, dalla forza di Melucci di tessere un rapporto con le altre anime prodotte dalla diaspora a sinistra. La partita è, dunque, apertissima.
Anche il voto di Lecce rispetta fondamentalmente la tendenza nazionale, ma con specificità e dinamiche più locali. Il primo dato che salta agli occhi è che, considerati i risultati di cinque anni fa e la storica tradizione di destra dell’elettorato leccese, il risultato complessivo della coalizione di centrodestra (52%) è tutt’altro che entusiasmante. Fallire la vittoria al primo turno e correre i rischi intrinseci nel ballottaggio, in una propria roccaforte, non può far parlare di risultato straordinario, come in qualche enfatico commento è apparso. E, sia chiaro, sulla base dei numeri sarebbe non solo ingiusto ma anche infondato addossare le responsabilità al candidato sindaco. Anzi, rispetto al risultato delle liste, la performance di Mauro Giliberti, alla prima esperienza politica e al primo test elettorale, è da considerare più che positiva. Il tanto temuto voto disgiunto, al di là dei flussi e degli incroci ancora tutti da studiare, è stato contenuto e, comunque, non di sola uscita. Lo scarto di sette punti tra Giliberti (45,2%) e i voti delle liste risulta, di fatto, largamente inferiore a quanto tutti prevedevano alla vigilia. Basti pensare, del resto, che anche nel 2012, con un Perrone dilagante, il sindaco uscente ottenne, comunque, uno scarto negativo di tre punti rispetto al voto delle liste. Si tratta ora di vedere la capacità di sfondamento di Giliberti oltre i recinti del centrodestra e, soprattutto, la forza della coalizione nel giorno del ballottaggio senza la spinta delle otto liste e delle centinaia di candidati consiglieri.
Dentro il voto del centrodestra spicca, certamente, l’affermazione di Direzione Italia, all’esordio con il nuovo simbolo: è il primo partito, trainato da sindaco e assessori uscenti, che hanno dato vita a una gara nella gara per conquistare il primato delle preferenze. Se al 17,4% di Direzione Italia si aggiungono l’ottima affermazione della lista “Grande Lecce” (10,5%) e il rispettabile 4,6% di “Lecce città del mondo”, entrambe di diretta filiazione del partito fittiano, viene sfondato il muro del 30%. Deludente, invece, il risultato di Forza Italia che, scontando in modo vistoso l’assenza di una leadership sul territorio, scende sotto la soglia delle due cifre (8,9%), inseguita da posizioni ravvicinate anche da Fratelli d’Italia, dove l’apporto di Congedo si è fatto sentire.
Il centrodestra ha pagato duramente la fuoriuscita di Alessandro Delli Noci, che con il suo trasversale quel 16,9% , può ritenersi tra i vincitori di questa tornata, pur non andando al ballottaggio. La sua forza elettorale è stata fin dall’inizio sottovalutata dai vertici leccesi di Direzione Italia: c’era chi liquidava, con supponenza, il fenomeno come esclusivamente mediatico, ipotizzando un consenso elettorale non superiore al 5%. Analisi sbagliata: dai risultati emerge chiaramente che con Delli Noci nel centrodestra la partita si sarebbe chiusa ieri, senza ballottaggio. Non solo: sommando i risultati delle liste di centrodestra con quelli ottenuti dalle liste di Delli Noci sarebbe stato superato anche quel 67% di cinque anni. C’è di che riflettere, dunque, soprattutto nel partito di Fitto. Prima o poi, i vertici leccesi dovranno interrogarsi sul clamoroso pasticcio e sull’ostinata rivendicazione delle candidature a sindaco che ha portato, tra le altre lacerazioni interne, a perdere anche un giovane amministratore con radicamento sul territorio. Appare difficile, ora, un accordo di Delli Noci con Giliberti, non foss’altro per le continue dichiarazioni fatte dall’ex assessore di essere e voler rimanere “nettamente alternativo a questo centrodestra”. Ma in politica, come si sa, non va mai dato nulla per scontato.
Miracolato, infine, il disastrato centrosinistra leccese. Vista la debacle del Pd (8,4%) e l’inconsistenza dei cespugli civici, la rabberciata alleanza che, tra clamorosi rifiuti e dilettantistiche gestioni delle trattative, ha individuato all’ultimo momento il candidato sindaco, dovrebbe accendere lumi a Carlo Salvemini che porta la coalizione al ballottaggio, dopo ben 20 anni di sconfitte al primo turno sempre con percentuali decrescenti. Il valore aggiunto del candidato risulta evidente confrontando il suo 28,9% con il 24,6% della coalizione. Eppure, di fronte a questo risultato, ottenuto - bisogna ripeterlo - anche grazie alla candidatura di rottura di Delli Noci, il litigioso centrosinistra leccese trova subito il tempo per farsi male da solo, dividendosi in polemiche surreali. La sortita di Emiliano (“mai raggiunto un risultato così basso a Lecce”), oltre a essere falsa rispetto alle cifre (basterebbe il confronto con i risultati di cinque anni fa dell’attuale assessore regionale Loredana Capone), sa di vendetta postuma dopo il rifiuto di Salvemini di chiudere la campagna elettorale con il governatore sul palco a piazza Sant’Oronzo. Appare, perciò, evidente che al ballottaggio Salvemini dovrà guardarsi, soprattutto, dai colpi bassi e dalle trame vendicative delle correnti nella propria coalizione. Molto dipenderà anche dalla sua proposta politica e di governo verso il movimento di Delli Noci, il cui appoggio - in caso di vittoria - risulterà fondamentale per i problematici rapporti di forza in Consiglio comunale. Di sicuro, è tutt’altro che scontato il trasferimento dell’elettorato dell’ex assessore verso il candidato della sinistra, nonostante gli inviti all’accordo lanciati da Emiliano, le cui simpatie (solo simpatie?) verso Delli Noci sono venute ieri alla luce del sole. Ne sapremo di più nelle prossime ore. La partita per il ballottaggio è appena cominciata. E anche a Lecce, al di là del notevole distacco nelle percentuali di partenza tra i due contendenti, resta molto aperta.

 
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