Il destino del Sud legato al rilancio dell'Europa

di Adelmo GAETANI
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Martedì 14 Febbraio 2017, 18:32
È toccato ai vescovi scuotere nuovamente le coscienze, speriamo anche quelle dei politici, sullo stato di profondo disagio in cui versa il Mezzogiorno e, in particolare, i suoi giovani, senza lavoro, senza fiducia, senza futuro. La disoccupazione giovanile ha superato a livello nazionale la soglia del 40%, segno di un’emergenza generale; ma nel Sud va oltre il 50% (il 51% in Puglia, secondo la Cgil regionale). Sono dati che certificano un’autentica catastrofe sociale, il massacro di una generazione, ma anche la sconfitta della politica e delle classi di governo.
Dopo anni di silenzio e di riflettori puntati esclusivamente sui bisogni del Nord, si torna a parlare di Mezzogiorno, ma spesso lo si fa ricorrendo a vecchi canoni o riproponendo ricette già fallite negli ultimi decenni. Non bastano i fondi comunitari e il loro utilizzo per recuperare il terreno perduto, come l’esperienza degli ultimi 20 anni dimostra. Ci vuole ben altro per rovesciare una situazione fallimentare che spinge al disimpegno e, allo stesso tempo, alimenta insoddisfazioni e proteste: serve una politica nazionale capace di guardare al futuro del Paese in modo integrato e allo stesso tempo ci vuole un’Europa che sappia recuperare pienamente la sua vocazione originaria nel segno della solidarietà tra i popoli e del destino condiviso e comune dei Paesi che ne fanno parte.
È quello che manca a livello nazionale e comunitario. Tra un mese si celebreranno i 60 anni del Patto di Roma che dette vita alla Comunità europea. Si vedrà se sarà quello il momento in cui si saprà ragionare e decidere una svolta che scongiuri il crollo della costruzione europea sotto i colpi prima della Brexit, poi di una possibile Frexit e delle spinte populiste che si diffondono con sempre maggiore forza in molti Paesi e, infine, delle micidiali pressioni convergenti dell’America di Trump e della Russia di Putin che preferiscono avere un partner/avversario diviso e debole.
Il primo passo tocca all’Europa che deve svestire i suoi panni tedeschi per diventare l’Europa di tutti. La Germania continua ad arricchirsi - anche grazie all’euro fatto su sua misura - a scapito degli altri Paesi e a dispetto dei regolamenti europei, drastici quando si applicano agli altri, flessibili quando si avvicinano a Berlino. Come nel caso dell’export tedesco che nel 2016 ha toccato 1.207,5 miliardi di euro (+1,2% sul 2015), con un nuovo record della bilancia commerciale a 252,9 miliardi. Ora le regole Ue dicono che il surplus commerciale di una Paese non può superare il 6%, mentre quello tedesco sfiora il 10%, una pre-procedura di infrazione è aperta da oltre due anni, ma non si vede nessun effetto concreto. Tra l’altro, questo fatto consente a Trump di lanciare l’accusa secondo la quale una delle cause delle difficoltà economiche globali sta proprio nell’aggressività dell’export tedesco.
L’Europa è chiamata a rivedere le sue priorità, mettendo al centro delle scelte politiche il problema del lavoro e dei giovani. Nel lontano 1993, Jacques Delors presentò il Libro bianco sulle sfide del Vecchio Continente. Erano tre gli obiettivi: crescita, competizione, occupazione. Quasi 25 anni dopo si può dire che la Germania ha pienamente centrato questi obiettivi, gli altri no. Ecco perché un nuovo inizio è ineludibile.
Naturalmente, a Roma non si può pensare che tutti i problemi possano e debbano essere risolti a Bruxelles, a partire dal gravoso debito pubblico che negli ultimi tre anni è cresciuto di circa 130 miliardi di euro a causa di scelte di politica economica inidonee a sostenere la crescita. Ma, allo stesso tempo, l’Europa deve allargare il suo mantello protettivo, che abbia forza politica, sui debiti sovrani per impedire aggressioni speculative, non lasciando questo delicato compito al solo presidente della Bce, Mario Draghi, spesso aspramente contrastato dai falchi della Bundesbank.
L’Italia da una parte deve dare garanzie e mantenere gli impegni che ha il dovere di assumere, nella consapevolezza che centrando l’obiettivo di una crescita consistente del Pil può vincere la battaglia contro il debito pubblico; dall’altra deve pretendere che la Ue volti pagina e vari un Piano straordinario per lo sviluppo economico e l’aumento dell’occupazione, con particolare riguardo per quella giovanile. Un Piano continentale che abbia al suo centro l’operatività immediata e l’efficienza, per evitare che si ripeta il gioco delle promesse svanite di Junker.
E’ evidente, tuttavia, che sui temi del lavoro l’Italia non può perdere altro tempo, o aspettare decisioni esterne, se non vuole mettere a rischio la sua stessa tenuta sociale. Quello che serve con urgenza è un Piano nazionale per l’occupazione che abbia al centro il Mezzogiorno e dia risposte credibili a milioni di giovani in attesa di un segnale che faccia rinascere in loro la speranza di un futuro diverso.
Deve trattarsi di un progetto ampio e innovativo che deve includere una riflessione sul concetto di lavoro per evitare che l’occupazione abbia un valore solo statistico, mentre non incide sulla qualità della vita delle persone. L’uso smodato e spesso arbitrario della flessibilità, introdotta in questi ultimi due decenni, ha portato i rapporti lavorativi in una jungla dove la precarietà diffusa e la mancanza di tutele ha impedito al lavoratore a tempo determinato o a ore, figure ormai dominanti, la pianificazione dell’esistenza, l’investimento sul futuro, la possibilità di acquistare una casa, il progetto di un matrimonio o di fare un figlio. Tutte situazioni che finiscono con l’avere ricadute negative sulle dinamiche socio-economico e, dunque, sulla crescita di una società.
La flessibilità è accettabile quando serve ad accompagnare un periodo di accesso e di prova sul nuovo posto di lavoro, ma non può essere la condizione di esistenza di un lavoratore dipendente. E quando è il processo produttivo a imporre rapporti e orari flessibili, devono essere previste le dovute tutele sociali.
Così come alla disoccupazione giovanile dilagante vanno assicurate anche risposte temporanee attraverso progetti dedicati che configurino un reddito minimo in attesa di un ingresso stabilizzato nel mondo del lavoro.
Il Mezzogiorno chiama l’Italia e l’Europa, ma sarà ascoltato?
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