Se il “barbaro” non è un invasore straniero ma viene dall'interno

di Stefano CRISTANTE
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Sabato 21 Gennaio 2017, 18:42
“Arrivano i barbari!”. Per anni dalle principali tribune dell’opinione pubblica occidentale si è lanciato l’allarme: la politica - così come è stata pensata e realizzata nella modernità - non esiste più. Gli attori tradizionali, vincolati da antiche usanze e comportamenti, erano aggrediti da nuovi soggetti: di cultura spiccatamente anti-umanistica, questi nuovi leader rompevano con ogni atteggiamento buonista. E si appellavano al popolo senza arzigogoli letterari, ibridando con la propria strategia comunicativa i social network, le tv e i giornali. Duri nella polemica e instancabili nella propaganda, i barbari sono stati visti nelle sembianze di tutti coloro che hanno minacciato e minacciano il politicamente corretto e i valori orientati in senso progressista “classico” (giustizia e diritti); ai barbari è stato attribuito un linguaggio volutamente rozzo ed elementare, che punta a ridurre il ragionamento all’asserzione secca, indimenticabile come uno slogan pubblicitario. Alcuni studiosi, in particolare di comunicazione, hanno associato i barbari alla frattura tra scrittura e nuove tecnologie. L’ambiente della scrittura predispone alla pianificazione psicologica, l’ambiente elettronico-digitale, egemonizzato dall’immagine, istiga all’esplosione emotiva.
Mentre gli editorialisti e gli studiosi discettavano, Donald Trump, dopo una campagna elettorale durissima e piena di fango, diventava il 45° presidente degli Stati Uniti d’America. Donald Trump è un politico “barbaro” anche se non viene da fuori, come indicherebbe l’etimo. Il barbaro, cioè lo straniero, in questo caso non è un invasore che pretende di violare confini e di assaltare. Trump è l’estraneo che viene dall’interno: è americano, anzi, si proclama la quintessenza dell’americanità. Il trucco (la “briscola”, traduzione letterale della parola “trump”) è che comunica soltanto una parte dei valori americani, e ne rappresenta anche meno. Tuttavia i valori selezionati dal suo discorso sono battuti come un’incudine, e poi battuti di nuovo e poi ancora e ancora, a delineare una distanza siderale, barbarica, con i suoi predecessori: l’America è in declino per colpa del suo establishment, che ha espropriato il popolo dalle decisioni e costruito un’arca di privilegi e di sperperi. Ovunque guarda, il barbaro Trump, ora insediato nel trono repubblicano di Lincoln e di Kennedy, vede fabbriche corrose dalla ruggine, la classe media spolpata dalla concorrenza quotidiana e spremuta dal fisco, un’esplosione di criminalità, un’evidente dissipazione di enormi risorse per tentare un confuso governo del mondo, la convivenza sociale messa in discussione dalle migrazioni, trattati internazionali costosi e non convenienti.
Ieri pomeriggio Trump si è presentato sfoggiando una cravatta rossa non-istituzionale. Ha giurato sulla bibbia di Lincoln e ha guardato nelle telecamere come sua abitudine con sguardo accigliato e convinto, a tratti sfrontato. Le sue frasi, al leggio presidenziale, sono state brevi e molto chiare, come al solito: “Dovremo affrontare un’opera immane di ricostruzione. (…) Oggi non avviene un semplice trasferimento del potere: oggi, da Washington D.C., il potere ritorna al popolo”. La citazione di questo termine è reiterata: “L’establishment ha sfruttato il popolo. (…) Non importa chi è al governo, ma se il controllo del suo operato è nelle mani del popolo. (…) Il popolo è il governatore di questa nazione”. È stato il primo discorso del primo leader populista americano? Più volte ho insistito sulla necessità di rinunciare a questo termine se si vuole capire qualcosa di meno superficiale su fenomeni che hanno origini e caratteristiche diverse. Quello che sappiamo è che Trump si è appellato al popolo come soggetto della sua politica: se populista vuol dire questo, certamente Trump è un leader populista. Ma non usciamo dalla tautologia. Il problema è perché uno come Trump, che è miliardario e celebrity, si appelli al popolo e da questo ottenga consenso. La risposta è che Trump è un barbaro, e cioè un leader capace di incarnare una retorica politica fondata sul politicamente scorretto e sulla critica implacabile alle conseguenze della globalizzazione, voluta “da quelli di Washington, D.C.”. La frattura tra il barbaro e i predecessori è stata annunciata dallo stesso Trump durante il discorso di insediamento: ha detto in sostanza che nulla sarà più come prima, e che il popolo rimetterà a posto ogni cosa. O meglio: che lui, che è il campione del popolo, farà l’America ancora grande. Come? È semplice: rimettendo l’America al primo posto in ogni ambito. America first, l’America per prima. In primo luogo viene l’interesse dell’America, poi quello del resto del mondo. Il populismo retorico diviene demagogia, cioè guida egemonica dell’opinione pubblica: in nome del popolo Trump propone di reinvestire in spese militari per la difesa e per la sicurezza, non per intervenire in conflitti dispendiosi e lontani. Vuole ridiscutere le alleanze economiche internazionali e proteggere il mercato statunitense dalle merci cinesi e dall’indebitamento nei confronti della Cina, pretendendo di revocare la convenienza delle delocalizzazioni facilitate dalla globalizzazione. Il discorso di Trump, il tycoon miliardario, è anche pieno di riferimenti a chi, e non solo a cosa, intende difendere, a cominciare dagli operai dell’industria manifatturiera. Trump vuole riaprire le fabbriche dove lavoravano le tute blu che hanno perso il lavoro a vantaggio di produzioni cinesi e sud-asiatiche e che nelle urne hanno preferito Trump alla Clinton.
Trump ha anche detto come intende rendere di nuovo economicamente grande l’America: con nuovi porti, nuove stazioni, nuovi aeroporti, nuovi edifici pubblici. Costruire, letteralmente, una nuova potenza infrastrutturale americana. A ciò è collegato il discorso, assai allarmante, della quantità di energia necessaria per ottenere questo risultato. Su questo, essendo portatore di una visione in cui il petrolio, il carbone e il nucleare vanno rigiocati senza parsimonia sul tavolo energetico, il presidente Trump ha taciuto. È invece un aspetto centrale della questione che i leader barbari, dichiaratamente protezionisti in economia e patriottici in politica estera (cioè nazionalisti), consegnano al loro popolo. Occultare l’emergenza ecologica planetaria è il primo azzardo della nuova leadership barbara, persino più problematico dell’alleanza annunciata tra Trump e Putin. È l’annuncio di una radicalizzazione evidente degli scenari, in un riposizionamento geopolitico di dimensioni storiche, mentre uno schieramento di polizia classicamente “imponente” tiene i manifestanti lontani dal giuramento di Trump, il primo presidente barbaro degli Stati Uniti d’America.
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