Sartori, il burbero genio della scienza politica

Giovanni Sartori
Giovanni Sartori
di Federico RUSSO*
3 Minuti di Lettura
Giovedì 6 Aprile 2017, 17:53 - Ultimo aggiornamento: 17:56
Un caustico editorialista e un pensatore profondo, capace di influenzare la teoria sul funzionamento delle democrazie contemporanee. La straordinarietà di Giovanni Sartori, morto lunedì all’età di 92 anni, è ben riassunta nella rara capacità di eccellere in due campi che richiedono doti così diverse. La notorietà pubblica di Giovanni Sartori è dovuta soprattutto ai suoi commenti puntuali e sferzanti sulla politica italiana e internazionale. Dobbiamo a lui le espressioni “Mattarellum” e “Porcellum” per designare le ultime leggi elettorali italiani, liquidandole con stile ma senza appello. Il suo temperamento burbero era proverbiale, così come la sua ironia di stampo toscano: nelle sue parole Berlusconi aveva instaurato un “sultanato”, e Renzi era “un imbroglione aggressivo”.

Quello che il grande pubblico probabilmente non conosce fino in fondo è la grandezza del pensatore. Sartori si laureò nel 1946 in scienze politiche e sociali a Firenze, dove ricevette una solida formazione filosofica. I suoi interessi virarono presto verso la scienza politica, una disciplina accademica rivolta allo studio del funzionamento concreto di processi politici che già poteva contare su una solida tradizione negli Stati Uniti, ma che non aveva potuto radicarsi nel clima culturale dell’Italia fascista. Alla Cesare Alfieri di Firenze rimase per trent’anni, scalando tutti i gradini della carriera accademica e radunando attorno a sé un gruppo di brillanti allievi. Nel 1976, sfiduciato dal clima della contestazione e poco ottimista sul futuro dell’università italiana, accettò prima un posto da professore alla prestigiosa università di Stanford. Si trasferì poi alla Columbia University di New York, dove insegnò fino al 1994 per poi rimanerne professore emerito.

L’impatto dell’opera scientifica di Sartori sullo studio delle democrazie contemporanee ha pochi uguali. Con un libro del 1957, “Democrazia e definizioni” (Il Mulino), notò che molto si era scritto su come dovessero funzionare le democrazie e assai poco su come queste funzionano davvero. Analizzandone il funzionamento concreto, si deve riconoscere che la democrazia è un sistema etico-politico fondato sulla competizione elettorale tra partiti, un meccanismo in grado di assicurare un certo grado di rispondenza tra eletti ed elettori. Nemico giurato della confusione tra essere e dover essere scrisse nella prefazione alla seconda edizione del volume: “Io non parteggio per nessun ‘ismo’; ma sono contro gli imbrogli, l’incompetenza e la sconclusionatezza mentale. Il mio punto è la coerenza, e soprattutto una consapevole coerenza tra i nostri fini e i mezzi cui ricorriamo per realizzarli”. In questo spirito, Sartori ammetteva che si potessero nutrire ambizioni più elevate sulla democrazia, a patto di aver chiaro che una cosa sono le democrazie concrete e un’altra le nostre ideologie.

Fu trai primi a mettere in evidenza che il funzionamento concreto dei sistemi democratici dipende non solo dalle regole costituzionali ma anche dal numero e dalle caratteristiche dei partiti. In un saggio del 1966 diagnosticò al sistema politico italiano una patologia chiamata “pluralismo polarizzato”. Le coalizioni di governo dovevano fronteggiare l’attacco di forze politiche che certo erano assai distanti tra loro, il Pci e l’Msi. Eppure entrambi questi partiti potevano permettersi di fare promesse politiche irrealistiche, nella certezza che, essendo condannati all’opposizione permanente, non sarebbero mai stati chiamati a risponderne all’elettorato.
In anni più recenti Sartori si è mostrato assai preoccupato sul futuro della democrazia, non solo nei suoi interventi da polemista ma anche nei suoi saggi più impegnati. In particolare lo preoccupavano i cambiamenti dei mass-media, e le conseguenze del predominio della televisione sulla carta stampata. La tesi del suo libro “Homo videns” (Laterza, 1997) è che la sostituzione della parola scritta con le immagini stesse causano il tramonto dei dibatti complessi, sostituiti dall’immediatezza delle emozioni e delle banalità. Cosa sarebbe rimasto della democrazia una volta indebolita la qualità del dibattito pubblico? A venti anni dalla pubblicazione di quel saggio, questa domanda non è meno attuale di allora. La novità è che da oggi in poi dovremo interrogarci sulla risposta senza l’aiuto di un grande maestro.

*Docente di Scienza politica
Università del Salento
© RIPRODUZIONE RISERVATA