Apocalittici o integrati, ecco perché Sanremo è (e resta) Sanremo

di Luca BANDIRALI
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Sabato 11 Febbraio 2017, 16:36
La massima esposizione mediatica per la forma-canzone in Italia si ha in occasione di un festival che si svolge in un piccolo teatro sulla riviera ligure ma che ha il budget di un grande concerto di massa e lo utilizza per attirare introiti pubblicitari. A commentare il festival di Sanremo si finisce sempre per fare la figura dell’apocalittico o dell’integrato. L’apocalittico si diffonde negli anni settanta ed è quello che non guarda Sanremo e ci tiene a farlo sapere a tutti. L’integrato lo guarda dalle origini e in linea di massima gli piace nella versione più canonica (presentatore, valletta bionda e valletta bruna). Nell’era postmoderna, è sorta una terza tipologia: lo spettatore ironico, che guarda il festival consapevole della mediocrità artistica, ma è attratto dalle possibilità ludiche che si attivano nella condivisione dei commenti sui social. Questa nicchia è cresciuta fino a includere molti apocalittici, il che spiega il successo di ascolti di quello che non è affatto un festival musicale, ma una lunghissima trasmissione televisiva che sembra arrancare per cinque interminabili serate, più di una ventina di ore in cui alle canzoni in sé è destinato un minutaggio tutto sommato minoritario, e in cui i cantanti al cospetto del pubblico televisivo fanno la fine dei Blues Brothers protetti da una rete da polli, mentre dagli avventori ubriachi volano le bottiglie.

Anche il festival di quest’anno si pone come l’ultima rumorosa retroguardia della televisione generalista, una macchina costosa e poco performante, rappresentazione di un paese che non esiste più, almeno non in questa misura: e non si invochi la dittatura dei numeri, dal momento che l’Auditel registra esclusivamente le scelte di chi guarda molte ore di televisione tradizionale al giorno (niente piattaforme digitali, niente streaming). Ingiudicabile sotto il profilo dello spettacolo, perché la televisione non si fa più così in nessun luogo civilizzato (guardate la serata dei Grammy Awards, tanto per dire), Sanremo si può analizzare soltanto in termini di stato della forma-canzone, se contasse qualcosa e se non lo facessero già gli apocalittici (ludici e non), improvvisamente esperti di tecnica vocale, orchestrazioni e soprattutto scrittura dei testi, prendendo cantonante memorabili: si ricordano ancora le risate collettive per il “trottolino amoroso” di Minghi, che però era un testo mirabilmente sperimentale, parolibero, del poeta Pasquale Panella.

L’edizione in corso offre del materiale inevitabilmente formulaico, che si divide in due tipologie: il brano downtempo con crescendo, praticato sia dai veterani (Albano, Mannoia), sia dai più giovani (Elodie); oppure il midtempo senza dinamica che si apre nell’inciso (Samuel, Ferreri, Nesli). Nel primo caso abbiamo la ballata sanremese, paradigma del sentimento tonale ed erede degenere del bel canto; nel secondo caso, abbiamo del pop radiofonico senza pretese. Qualcuno tenta la forma ibrida (Bianca Atzei), con strofa lenta e inciso veloce, nello stile che fra i cantautori impose a suo tempo Luca Carboni, ma la sensazione è che chi vuole sembrare nuovo, a Sanremo, finisca sempre per sembrare più obsoleto degli interpreti navigati. La gara avvilisce ulteriormente il senso della produzione artistica, che non è strutturata per fare le corse, come i cavalli.

Il paradosso è che di musica, fuori da Sanremo, se ne fa tantissima (spesso anche buona), a riflettori spenti; mentre a Sanremo, davanti a undici milioni (presunti) di ludico-apocalittici e serenamente integrati se ne fa pochissima e di qualità medio-bassa. La musica può tornare a essere un’industria anche in Italia, ma accentrare investimenti su questo tipo di evento è come investire ancora nel circo con gli animali ammaestrati, mentre tutto il mondo sembra andare in un’altra direzione
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