"Zalonismo" manifesto culturale del Renzismo

di Michele Di Schiena
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Mercoledì 27 Gennaio 2016, 10:53 - Ultimo aggiornamento: 28 Gennaio, 15:23
“L'ho visto con i miei figli che conoscono a memoria tutte le battute dei suoi film. Ho riso dall'inizio alla fine. Il successo di Zalone dimostra che anche i radical chic hanno capito che è un genio. C'è da sorridere su certi cambi di atteggiamento: fino a qualche tempo fa era un reietto volgare snobbato dagli stessi intellettuali che oggi lo osannano”: così Renzi ha commentato in un'intervista al quotidiano “La Stampa” il successo del comico di Capurso col suo ultimo film. E non vi è dubbio che il Presidente del Consiglio ha mille ragioni per inneggiare al “Quo vado?” perché si tratta di uno spettacolo che, lungi dal ricorrere all'ironia per correggere comportamenti indegni e storture del potere, mette in campo una paradossale trama e grossolane battute per correre, secondo un vecchio ma imperituro vizio italico, in soccorso della politica oggi dominante. Un film privo di autentica satira, quella che deridendo i costumi punta a correggerli (castigat ridendo mores), e pervaso da una facile comicità tanto all'apparenza dissacrante quanto nella sostanza in linea con le logiche del renzismo.

Così Renzi ha commentato in un'intervista al quotidiano “La Stampa” il successo del comico di Capurso col suo ultimo film. E non vi è dubbio che il Presidente del Consiglio ha mille ragioni per inneggiare al “Quo vado?” perché si tratta di uno spettacolo che, lungi dal ricorrere all'ironia per correggere comportamenti indegni e storture del potere, mette in campo una paradossale trama e grossolane battute per correre, secondo un vecchio ma imperituro vizio italico, in soccorso della politica oggi dominante. Un film privo di autentica satira, quella che deridendo i costumi punta a correggerli (castigat ridendo mores), e pervaso da una facile comicità tanto all'apparenza dissacrante quanto nella sostanza in linea con le logiche del renzismo.

L’elenco dei punti di incontro è lungo: sbeffeggiamento del posto fisso, lavoro precario come traguardo, strumentale esasperazione e utilizzo delle insufficienze e delle storture della Pubblica Amministrazione, rottamazione dei vecchi politici e soprattutto una conclusione del racconto all'insegna di quel trionfante ottimismo esaltato contro i critici “gufi”. Un film, a ben guardare, che si rivela, nonostante le profuse ilarità, un malinconico “segno dei tempi”, condito peraltro da alcune rozzezze fra le quali spicca in una filastrocca la rima fra il cognome della grande scienziata italiana Margherita Hack (di recente scomparsa) e la volgare espressione inglese you fuck.

Non può essere invero motivo di sorpresa che il “Quo vado?” di Zalone sia stato considerato da alcuni commentatori un “manifesto” culturalmente renziano (come lo definisce Massimiliano Lenzi sul quotidiano on line Il Tempo del 6 gennaio 2016) e da altri osservatori un vero e proprio “manifesto del futuro centrodestra” (come scrive Francesco Corridori sulla testata on line Formiche del 5 gennaio 2016). E sì, perché le due apparentemente contrastanti opinioni sono, a ben guardare, entrambe fondate dal momento che colgono da prospettive e con accenti diversi la medesima realtà politica vale a dire la convergenza del renzismo e del berlusconismo (pronto sempre, quest'ultimo, a risorgere come l'araba fenice dalla sue ceneri) verso il Partito della Nazione.

Una formazione politica alla cui costruzione stanno lavorando Renzi e Verdini in sintonia (se non celatamente d'intesa) con l'ex Cavaliere per assicurare, nei modi che verranno concordati, il pieno successo nelle prossime elezioni politiche di una sostanziale maggioranza (a prescindere dai ruoli formalmente assunti dalle sue componenti) guidata da un incontrastato leader coadiuvato da un docile gruppo conservatore estraneo alle tre culture che hanno animato la Resistenza e ispirato la Costituzione: la cultura socialista, quella cattolico-democratica e quella liberal-democratica incentrate sui valori della giustizia e della libertà.

L'operazione che il Partito della Nazione si propone di portare a termine punta insomma a operare una radicale mutazione genetica del Pd all'insegna di una precisa logica, quella così sintetizzata dallo scrittore Alberto Asor Rosa: “Si parte dall’idea che i conflitti sociali siano dannosi per cui i sindacati diventano il nemico. Così la cultura della nazione impone una ratio comune che è quella del grande capitale e della grande finanza. Il terzo punto è il restringimento della democrazia. Il Partito della Nazione, sviluppato sino in fondo, comprenderà anche Berlusconi e i berlusconiani, non solo Verdini e Alfano».

L'obiettivo è quindi quello di consolidare nella prossima legislatura un partito egemone a fronte di un'opposizione, per effetto della nuova legge elettorale, frantumata e priva di consistente peso politico. Un partito con "un uomo solo al comando" capace di esprimere un forte Esecutivo con l'indebolimento dei poteri di indirizzo e di controllo del Parlamento (una Camera dei Deputati in larga parte composta di nominati e un evanescente Senato) e con l'addomesticamento di tutte le altre funzioni di controllo: quella giudiziaria (a partire dalla Consulta e dal Consiglio Superiore della Magistratura), attraverso nomine di spettanza parlamentare e studiati provvedimenti limitativi; quella sociale, con l'indebolimento e l'emarginazione dei sindacati e quella dei mezzi di informazione (a partire dalla “riformata” Rai), con interventi normativi e il ricorso a ogni altra possibile forma di influenza.

Il premier dice ad ogni piè sospinto che se dovesse perdere il referendum sulle riforme istituzionali considererebbe conclusa la sua esperienza politica e lo fa per drammatizzare il confronto democratico ed esercitare una impropria pressione sul voto che, a termine di legge, non può avere alcun effetto sulla sopravvivenza o meno del Governo. Egli punta sulla pretesa mancanza allo stato di alternative al suo Governo ma forse non tiene conto che il referendum confermativo, la cui normativa non prevede alcun “quorum” degli aventi diritto al voto che ne determini la validità, presenta certo molte incognite ma offre anche una certezza: quella che, per la specificità dell'oggetto della consultazione, un esito di conferma della riforma non potrà mai essere letto come un avallo alla politica del Governo mentre una vittoria del “no” nuocerebbe certamente all'immagine di chi ha tentato di attribuirle un significato ad essa estraneo.

Per il fronte del “no” il referendum del prossimo autunno è solo una tappa assai importante di un lavoro appassionato e animato da grandi motivazioni ideali e politiche, che va ben oltre l'appuntamento referendario. Il lavoro di costruzione di quella “democrazia costituzionale” che, come afferma l'omonimo Coordinamento nazionale di associazioni nonché di gruppi e singole persone, ha invero l'obiettivo di valorizzare i principi della democrazia della nostra Costituzione operando per attivare l'opinione pubblica, largamente inconsapevole dei contenuti del processo di riforme istituzionali in atto, e per promuovere un dibattito politico che faccia avanzare nei cittadini la consapevolezza della cruciale importanza della posta in gioco.

L'art. 1 del nostro Statuto (“L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”) costituisce la base dell'ordinamento democratico ed esprime l'idea-forza dell'intera Costituzione dalla quale emergono gli elementi essenziali sia della forma di Stato e sia della forma di Governo. Ne discende che ad ogni deformante alterazione della forma di Stato e di Governo corrisponde, in misura direttamente proporzionale, una compressione dei diritti dei lavoratori e un arretramento delle condizioni di vita dei cittadini più deboli.