L'esitazione degli italiani alla fiducia piena in un leader

di Stefano CRISTANTE
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Sabato 10 Dicembre 2016, 16:11 - Ultimo aggiornamento: 16:22
Gli italiani sono un popolo fortemente differenziato al proprio interno: le macro-aree (Nord, Centro e Sud) ci sono in tutti gli altri paesi, ma da noi la diversità contraddistingue le regioni e poi anche le province e i campanili. Dal secondo dopoguerra in avanti gli italiani, per quanto molto diversi tra loro, non hanno mai fatto scelte politiche d’avventura.

Prima una sfilza di governi centristi e democristiani, poi il centro-sinistra che ingloba il Partito socialista, poi l’unità nazionale anti-terroristica, poi il pentapartito, poi Berlusconi alternato a coalizioni progressiste, poi il governo Monti e infine – vicende di queste ore – i mille giorni di Renzi. Quando si è trattato di appoggiare un leader fino in fondo, consentendogli di poter capitalizzare il proprio consenso e la propria autorità, gli italiani hanno esitato. La fiducia elettorale piena non è mai arrivata: è successo a chi ha vinto (Berlusconi, Prodi), a chi è andato avanti ma di poco (Craxi, Bersani) e a chi ha perso (Renzi domenica scorsa, D’Alema alle amministrative del 2000). Eppure, pur diffidenti, domenica scorsa molti milioni di italiani hanno ritrovato la tessera elettorale in qualche cassetto e sono andati a fare il loro dovere in una percentuale assai alta (più del 65%), soprattutto se si pensa che almeno il 25% degli elettori ha da tempo deciso che non andrà mai più a votare.

Il leader che ha perso la competizione referendaria, Matteo Renzi, non ha finora dedicato molte parole all’analisi dell’accaduto. Dopo l’annuncio della presa d’atto della sconfitta e un’assunzione totale di responsabilità, si è gettato nei convulsi momenti della transizione a un nuovo governo. Non ha avuto quindi il tempo materiale di proporre una propria analisi del risultato, né la Direzione del suo partito ha potuto discuterla, perché Renzi – dopo un intervento con qualche picco emotivo (“So che la nostra sarà una discussione molto dura”) – ha chiuso la riunione per incontrare il Presidente Mattarella. Attualmente abbiamo a disposizione diverse analisi da parte di chi ha vinto: nel centrodestra prevalgono i toni anti-renziani “secchi” (gli elettori hanno bocciato l’arroganza del leader), tra i 5 Stelle quelli fondati sullo smascheramento dei poteri forti e delle bugie di Renzi, nella sinistra l’attaccamento alla Costituzione e l’avversione alle politiche sociali del governo. L’argomentazione comune a tutti è che il referendum è stato giocato come un plebiscito dal premier. E che il premier lo ha perso.

Le parole di autocritica che abbiamo sentito da parte di Renzi sono di tipo “soggettivo”, cioè rientrano in un genere retorico già collaudato. Quando un personaggio politico perde, dichiara la sua mancata capacità di comunicazione (“Non sono stato in grado di spiegare e rispiegare con efficacia la nostra proposta di riforma costituzionale”). Ciò è in realtà paradossale se si pensa che Renzi è stato unanimemente riconosciuto come un abilissimo comunicatore. Infatti molti di noi hanno visto l’ex presidente del Consiglio in azione durante la campagna elettorale: onnipresente e instancabile, si è scontrato negli schermi televisivi d’Italia con tutti gli avversari disponibili, senza per questo interrompere la sua attività internazionale, la sua polemica con l’Europa, la definizione della legge di stabilità. Non si può quindi attribuire al leader e alla sua campagna una mancanza di comunicazione (casomai un eccesso). In ogni caso, il Sì al quesito referendario era spinto anche da altri venti, tra cui il fatto che la riforma avrebbe comportato un (seppure molto discusso) risparmio delle spese del Senato e una riduzione del numero dei senatori (seppure con la complicazione del doppio lavoro dei consiglieri regionali). Elementi in sé “positivi”, facilmente memorizzabili e trasportabili nelle urne da chiunque, di fronte a un quesito formulato in modo sostanzialmente accattivante. Nemmeno questo ha funzionato, così come non ha funzionato il sostegno di una parte importante del mondo imprenditoriale, dell’informazione e dello spettacolo. Né il fatto, più volte riscontrato nelle campagne vincenti, che una competizione si svolgesse in modo asimmetrico, cioè avendo una delle parti in campo un unico leader (Renzi) e l’altra un insieme disomogeneo di volti. Ma nemmeno questo ha funzionato.

Il dato che colpisce di più, nelle analisi dei flussi e controflussi del voto, è che i giovani dai 18 ai 34 hanno votato No in percentuali che superano l’80%. Questo dato è ancora più importante del massiccio successo dei No tra i voti meridionali e la discreta affermazione del Sì in alcune importanti aree metropolitane. Il No giovanile è un altro paradosso di una fase dominata dal più giovane premier della storia italiana. Di solito l’espressione “cambiamento” è quella a cui i giovani sono più sensibili in politica. Per questo gli argomenti del Sì non hanno fatto breccia tra i giovanissimi: perché hanno dato un significato diverso alla parola cambiamento. Non si è visto un cambiamento reale, ma assistito a un dispiegamento a tratti molto efficace della retorica del cambiamento, attraverso un linguaggio semplice, arguto e arrogante, in sintonia con i valori delle nuove tecnologie e della velocità. Non è bastato, nemmeno a fronte di un segno tangibile di avvicinamento generazionale rappresentato dal bonus per i diciottenni. Se le grandi meta-narrazioni novecentesche non esistono più, qualcosa sta prendendo il loro posto. La costruzione ideologica in atto (dall’alto, dai governi) la conosciamo già, e si chiama neoliberismo: la sua ultima versione, quella trumpiana, prevede una declinazione protezionista e ultra-liberista, con annunci di legge e ordine. La costruzione ideologica in atto (dal basso, dalla società) non la conosciamo ancora perché ha molto sfaccettature, ma di certo annuncia diffidenza e avversione nei confronti di chi definisce la propria agenda in maniera solitaria. Renzi è stato imbattibile nell’imporre la propria agenda alla politica e ai media, ma la sua grande fretta ha finito per mobilitare singoli individui (magari molti) ma non blocchi sociali: ciò ha determinato un problema di egemonia, che si sarebbe risolto solo con una vittoria del Sì al referendum, facendo di Renzi un dominus incontrastato. E di questo gli italiani hanno avuto timore, anche al di là del favore verso la Costituzione nella sua versione “classica”. Il loro voto è stato quindi in linea con gli orientamenti storici generali, ma la situazione questa volta è molto instabile. La velocizzazione degli scenari ha i suoi rischi, perché le alternative hanno bisogno di maturare nella società, e non di offrirsi come girandole al vento dello spettacolo politico.
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