Errori evitabili. Ora ripartire dai lasciti positivi

di Pierluigi PORTALURI
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Martedì 6 Dicembre 2016, 20:27
Lascio volentieri ai cortigiani impauriti il compito di prendere in vari modi le distanze (ma sempre con cautela, ancora non è detta!) dal presunto tiranno deposto. E di guardarsi intorno con circospezione per trovare nuovi padroni: la cupiditas serviendi, la bramosia di servire, abita e abiterà sempre i posti migliori. Il mio piccolo mondo accademico non ha fatto certo eccezione.

A chi potesse interessare la cosa, dico che la mia posizione sulla riforma l’ho espressa formalmente in cinque-sei audizioni innanzi alle Commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato: era un intervento confuso e foriero di nuove incertezze sull’assetto dei poteri di governo. Una cura peggiore del male. Ora però evitiamo ignobili liste più o meno di proscrizione, vendette personali, urli e latrati del ventre. Chiediamoci con la ragione quali siano invece – sul piano tecnico e istituzionale – i lasciti positivi del primo Governo Renzi.

Partiamo dalla Carta. Meglio modificarla in modo intelligente (ma lontano da opachi disegni di controllo del potere), che difenderla solo per continuare a ignorarla.

Vengo al merito. Il bicameralismo perfetto può ormai essere abbandonato. Renzi ha giustamente convinto gli Italiani a disfarsi di questo totem. Gli sia data la sua parte di merito. Ma deve subentrare un sistema con un disegno il più possibile chiaro. Se si vuole escludere il Senato dal circuito fiduciario non si può poi dargli competenze legislative di notevole rilievo, come invece prevedeva la riforma. È una contraddizione strutturale che nessun modello di governo può sostenere. O di qua, o di là.

A seguire, il tema della elezione. È impensabile un doppio ruolo: di amministratori territoriali e di senatori. Lo stiamo capendo con la legge Delrio: i sindaci riescono a fare poco in qualità di presidenti delle Province. Manca loro il tempo.

Rapporti fra Stato e Regioni. Qui Renzi aveva un buon argomento da spendere e l’ha fatto. Veniamo da una scriteriata riforma del 2001, ipocrita e demagogica: predicava che tutto partisse «dal basso» (quanto adora quest’espressione il peggior sinistrese...!). Quindi le competenze erano di regola dei Comuni, via via salendo verso l’alto: Province, Regioni, infine lo Stato. Il quale era una sorta di loro parente brutto, sporco e soprattutto cattivo. Dunque da tenere a bada. Renzi non ha avuto paura a rispolverare un concetto tanto elementare, quanto opposto ai sogni lunari dei visionari “dalbassisti”: l’interesse nazionale deve essere in grado di prevalere. È l’eterno tema della «decisione ultima». Se la si affida sempre a modelli concertati, intese, etc., rischia di non arrivare mai o troppo tardi. Ammoniva Tito Livio: a Roma si perdeva tempo a trovare un accordo, mentre Sagunto veniva rasa al suolo dal nemico.

Il Nostro ha poi messo mano – e ha fatto bene – a un altro disastro della riforma del 2001, pensato proprio dagli stessi giuristi che in questi giorni esortavano caldamente a votare sì. È il nodo del riparto di funzioni fra lo Stato e le Regioni. Il sistema attuale è vago e fonte di conflitti. I quali impegnano moltissimo la Consulta che, invece di proteggere i diritti costituzionali dei cittadini, deve lavorare – praticamente a vuoto – al fine di “decidere chi deve decidere” fra Stato e Regioni. Quindi lo schema del 2001 andava riformato. Bravo Renzi, ripeto. Sin qui. Solo che il testo sottoposto a referendum avrebbe aumentato a dismisura la confusione, e a nulla sono valsi gli appelli – via via più rassegnati – dei giuristi che come me plaudivano sì alla scelta di cambiare, ma non in peggio.
In sintesi: al netto degli errori evitabilissimi, questa vicenda – il cui esaltante contorno di ardimentose compravendite d’anima e genuflessioni coraggiose non deve scandalizzare troppo, essendo spettacolo dalle mille repliche – ha offerto comunque al giurista italiano qualche segnale di progresso. Un approccio laico alla Costituzione, anzitutto: che, come la Chiesa, semper reformanda est. Almeno nelle sue parti più esposte al lavorìo del tempo e alle dure repliche della Storia, come il dogma del bicameralismo perfetto e quello – parolaio e vacuo – del dalbassismo a ogni costo.
Il povero giurista chiude queste righe osando adesso una digressione: pensando cioè ai ragazzi che gli donano il loro tempo e quindi ne seguono le lezioni universitarie. Vedo lì visi sfiduciati. Provo a rincuorarli dicendo che l’aula è una palestra, dove ci si prepara e si acquista la qualità più importante: il merito. Esultai quando Renzi – se non ricordo male – disse una cosa bellissima: che il suo Governo avrebbe premiato il conoscere qualcosa, non il conoscere qualcuno. Vasto programma. Non so se i mille giorni ne abbiano posto almeno le basi. Proprio non lo so.

Ma privilegiare il merito, non l’appartenenza a una fazione o cordata che sia, significa tutelare uno dei beni più preziosi soprattutto nel cuore di una giovane vita: la speranza. Che nell’Olimpo pagano era l’Ultima Dea. Ecco un punto da cui il nuovo premier amerei che proseguisse. O – se ritenete – partisse.
 
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