Sì alla riforma per bloccare gli avventurieri

di Sergio BLASI *
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Sabato 19 Novembre 2016, 12:33 - Ultimo aggiornamento: 20 Novembre, 17:33
Il tempo della riflessione sul referendum del 4 dicembre è per me terminato. Voterò sì. E lo farò con convinzione per una serie di ragioni di merito sulla riforma e per altre ragioni politiche che spero di riuscire qui ad argomentare. Il mio ragionamento parte da una premessa chiara: il rispetto per le persone di sinistra, fuori e dentro il Pd, che nell’urna sceglieranno un voto diverso dal mio. 

Perché la posizione del No, quando viene espressa in difesa della Costituzione del ’48, è una posizione che merita solo rispetto. Questa scelta accomuna soggetti, cito l’Anpi e la Cgil, con i quali il Pd continuerà a camminare fianco a fianco anche nel futuro. Perché rappresentano, in forme diverse, la comune battaglia della difesa dei valori dell’antifascismo e dell’organizzazione dei lavoratori. Valori dai quali mai il Pd potrà trascendere, pena lo svuotamento totale della sua stessa natura. 

Se io scelgo diversamente in questa occasione è perché penso, da rappresentante istituzionale, che abbiamo bisogno di cambiare il modo in cui le cose funzionano in questo paese. E questa riforma lo fa: cambia l’assetto istituzionale segnando la fine del bicameralismo perfetto; affida a chi governa una maggiore responsabilità; semplifica i processi legislativi; smuove il sistema istituzionale italiano; rende più maturo l’istituto della iniziativa di legge popolare, sancendo l’obbligatorietà della discussione parlamentare delle proposte che abbiano raggiunto un significativo numero di firme. È vero che le Regioni perderanno competenze (e questo è uno dei punti che più mi hanno tenuto nell’incertezza fino all’ultimo). Ma è vero anche che il nuovo Senato assumerà una funzione di riequilibrio nei confronti dei territori che lì troveranno adeguata rappresentanza. La sfida, a proposito del nuovo Senato, riguarderà le classi dirigenti locali, le quali dovranno essere capaci di selezionare al proprio interno le migliori esperienze e competenze a cui affidare il compito della rappresentanza a Roma. È una sfida che va raccolta. 

Accanto a queste ci sono altre motivazioni che hanno a che vedere con il presente scenario politico sul quale il referendum avrà un sicuro impatto. Ed è inutile nascondere che queste motivazioni hanno assunto per tutti noi un peso nella scelta. La campagna referendaria ha messo a dura prova la tenuta dell’ultimo vero partito italiano. Anzi, dell’ultimo partito progressista europeo che ha dimostrato di sapere e potere vincere. Guardandosi attorno in Europa non vediamo altro che il declino del centrosinistra: in Inghilterra, in Germania, in Spagna, in Francia, dove il Partito Socialista è al governo ma mostra evidenti segnali di cedimento nei confronti delle destre di Sarkozy e di Le Pen. Resta l’Italia. Resta il Pd. L’unico argine credibile alla spinta della destra e a quella del populismo del Movimento 5 Stelle. Io non vorrei contribuire a far cadere questo argine. Non vorrei che il referendum desse il via a una nuova crisi politica dagli esiti incerti, ma certamente svantaggiosi per il centrosinistra. Io vorrei puntare ad un futuro nel quale la sinistra non si limita a consolare le sofferenze dei ceti popolari. Io vorrei un futuro nel quale la sinistra è in grado di risolvere queste disuguaglianze governando, anche in maniera non del tutto soddisfacente, anche nella strettoia di coalizioni che non ci permettono di realizzare tutto e subito.

Il Pd attraversa – già da prima della segreteria di Renzi – una fase nella quale gli obiettivi che ci eravamo posti sono stati sopraffatti da una battaglia interna in cui si fronteggiano troppe correnti con i loro generali, i loro colonnelli, i loro soldati. Il risultato di questa situazione è l’aver ridotto la tensione ideale da cui il nostro partito è nato a una semplice tensione. Per molti sopraffare l’avversario interno è diventato più importante della missione a servizio del bene comune che questo partito si è data. Io penso che la vittoria del No al referendum rendere insanabili queste fratture. Potrebbe tracciare un solco troppo profondo da colmare. E vorrei evitarlo.

In questi giorni, a testimonianza del fatto che non tutto è perduto, abbiamo assistito ad iniziative come quella di Gianni Cuperlo che hanno mostrato che un’alternativa all’odio e al risentimento tra compagni di partito è possibile. E che è possibile lavorare per non rompere l’unità, mantenendo intatta la propria identità, la propria storia e la propria dignità di uomo politico collocato nella minoranza interna. In questo solco ideale voglio collocare la mia scelta, ponendomi tra quelli che non si iscrivono alla tifoseria renziana o antirenziana ma continuano a sentire il dovere di servire una causa più alta.
La posta in gioco il 4 dicembre non è il destino di Matteo Renzi o di Massimo D’Alema o di Gianni Cuperlo o di chiunque altro. La portata del voto referendario va ben oltre perchè concorrerà a determinare gli equilibri politici del paese per il futuro. Il centrosinistra ha impiegato vent’anni per arrivare stabilmente alla guida del paese. Non condanniamoci ad un ritorno al passato. Non condanniamoci ad un eterno ritorno dell’uguale. Accettiamo la sfida di un confronto interno acceso, nel quadro di una unità di intenti che vede il Pd e il centrosinistra protagonisti del futuro e non artefici di una insensata autodistruzione. La sfida è questa. Per questo, in compagnia di tante altre persone di sinistra, il 4 dicembre voterò sì.

* Consigliere regionale Pd
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