Tutti annunciati i pubblici disservizi

di Angelo SALENTO
4 Minuti di Lettura
Venerdì 17 Febbraio 2017, 16:10
La vicenda dei disservizi postali conferma ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che i servizi pubblici sono in pericolo. Non è la prima volta che abbiamo occasione di accorgercene, in questo lembo di Penisola. L’anno scorso, la “questione Frecciarossa”, debitamente approfondita dal Quotidiano di Puglia, ci fece comprendere che cosa sta accadendo al servizio ferroviario. Gran parte delle spese (investimenti, manutenzione) restano a carico della fiscalità generale, ma le risorse vengono utilizzate di preferenza laddove l’Azienda ne ricava profitti più lauti. Le aree periferiche contribuiscono alle spese del servizio come tutte le altre, ma restano sempre più isolate.
Anche nel caso delle Poste, i disservizi non sono una questione puramente locale, ma l’esito di una gestione consapevolmente orientata alla massimizzazione dei profitti. Come nel caso di Ferrovie dello Stato, siamo in presenza di un’azienda con altissimi tassi di redditività (il più alto tra i grandi operatori postali europei). E, come nel caso di Ferrovie, siamo nel pieno di un processo di trasferimento dell’impresa in mani private (il 40% del capitale di Poste è stato trasferito a privati nel 2015; un ulteriore 30% dovrebbe essere trasferito intorno alla metà di quest’anno, forse insieme al segmento più redditizio di Ferrovie).
Il nesso fra privatizzazione, redditività e riduzione del servizio pubblico è evidente: in vista della privatizzazione, si alimenta la redditività dell’impresa, e lo si fa nella maniera di gran lunga più semplice e rozza, ovvero riducendo il costo del lavoro e il volume del servizio pubblico, e puntando su attività ad alta redditività. Lo ha rilevato il sottosegretario alllo Sviluppo Economico, Antonello Giacomelli, che - in contrasto con la posizione pro-privatizzazione del ministro Calenda - in una lettera alla Segreteria del PD ha avvertito: «Temo che per mantenere la promessa di alti rendimenti, si finisca per intervenire drasticamente su aspetti di minor interesse finanziario ma di maggiore utilità sociale, ovvero a discapito della rete di sportelli, del recapito, del personale dedicato ai servizi locali [...]. Fin qui si è riusciti a gestire l’impatto di queste misure legate alla prima tranche di privatizzazione, non vorrei però che la vendita di un secondo pacchetto di azioni inevitabilmente finisca per incidere fortemente sul ruolo di Poste e del suo servizio, oltre che sul livello occupazionale».
La logica della privatizzazione porta a trasformare le aziende di servizio pubblico in imprese finanziarie che si occupano di massimizzare il rendimento del capitale investito. Qualcuno potrebbe osservare che questo percorso porta “modernizzazione” ed “efficienza”. Ma non è così. Quando nella proprietà entrano investitori privati, le imprese tendono innanzitutto a sottrarsi al servizio pubblico, a meno che non riescano a farselo pagare lautamente, con pesanti ripercussioni sui bilanci pubblici. In secondo luogo, tendono a ridurre gli investimenti produttivi, ovvero i soli investimenti che generano prosperità nel lungo termine, perché gli investitori sono interessati a incassare rendimenti nel breve periodo. Nel caso di Poste, la politica di remunerazione degli azionisti prevede che ben l’80% dell’utile netto sia distribuito in dividendi.
Assistiamo, insomma, a uno stravolgimento dei servizi di pubblica utilità, attraverso la trasformazione della natura stessa delle aziende. Poste Italiane è un caso emblematico, nel quale il servizio postale ha rapidamente perso rilievo, a vantaggio di settori di attività a più immediata redditività. Se nella classifica Forbes delle maggiori società quotate, Poste risulta oggi come una compagnia di assicurazioni, un motivo c’è: nel 2004, il servizio postale contribuiva per il 35% ai ricavi dell’Azienda, nel 2015 la quota è scesa al 13%. I servizi assicurativi sono passati dal 36% al 70% nello stesso periodo.
D’altro canto, come aveva già avvertito la Corte dei Conti nel 2010, le privatizzazioni non necessariamente comportano risparmi per i cittadini. Secondo dati Federconsumatori, fra il 2004 e il 2014 le tariffe postali sono aumentate di circa il 30%, le tariffe dell’energia elettrica, del gas e delle autostrade di circa il 40%, quelle del trasporto ferroviario del 45%, quelle del trattamento dei rifiuti del 75%, quelle dell’acqua potabile di oltre l’80%.
Se costano molto ai cittadini - in termini di aumento dei costi e riduzione della qualità dei servizi - queste trasformazioni sono invece altamente remunerative per i top manager. Secondo il rapporto di controllo redatto dalla Corte dei Conti, nel 2015 l’amministratore delegato (e direttore generale) di Poste Italiane, Francesco Caio, ha ricevuto una remunerazione totale che sfiora il milione e mezzo di euro, in ampia parte in forma di bonus per la quotazione della Società: un premio per aver trasformato un’azienda di servizio pubblico in una macchina da rendimenti (non è sbagliato pensare che una piccola parte del premio l’avrà pagata ogni cittadino, in termini di disservizi).
A chi giova un’azienda postale così trasformata, dunque? Di certo giova al top management e agli investitori. È meno chiaro che utilità possa avere per il Paese. Certo, la si può vendere, e così pagare una porzione di debito pubblico. In compenso, si sarà alienato un settore economicamente strategico, sul quale un management responsabile potrebbe operare in maniera virtuosa. Soprattutto - come avranno compreso i cittadini leccesi, e auspicabilmente anche i loro rappresentanti - si sarà contribuito alla corrosione dei servizi fondamentali e della qualità della vita.
© RIPRODUZIONE RISERVATA