La sinistra smarrita dietro il mito della crescita economica

di Francesco FISTETTI
5 Minuti di Lettura
Lunedì 6 Febbraio 2017, 16:22
L’intervento di Francesco Saponaro su “Quotidiano” di ieri dedicato a Benoît Hamon, vero e proprio outsider che ha battuto Manuel Valls nelle primarie del PS francese, merita un approfondimento soprattutto in relazione agli interrogativi che questa vicenda pone alla sinistra italiana nel suo insieme in una fase ancora una volta di destrutturazione e di ricomposizione che sta attraversando, con esiti che appaiono del tutto imprevedibili. Prima che sul punto centrale del suo programma elettorale, il reddito universale, vale la pena soffermarsi brevemente, al fine di informare per sommi capi il lettore, su un dato più complessivo concernente la filosofia politica a cui Hamon si è in parte richiamato. Infatti, sarebbe un dettaglio di secondaria importanza che Hamon esplicitamente si sia ispirato al “Manifesto convivialista. Dichiarazione di interdipendenza”, pubblicato in Francia nel 2013, sottoscritto da una sessantina di studiosi non solo francesi, ma europei ed americani (per l’Italia Elena Pulcini e il sottoscritto), ed ora disponibile in edizione italiana. Ciò che conta sottolineare in questa sede è che l’approccio culturale al mondo attuale proposto dal “Manifesto convivialista” è entrato a pieno titolo nello spazio della discussione pubblica – e della competizione politica - di un paese europeo avanzato come la Francia, ponendo in questione le certezze consolidate della sinistra storica e i postulati classici del secolo socialdemocratico.
Che le conseguenze socio-politiche di una tale svolta non potranno essere colte subito, ad esempio in questa tornata elettorale, bisognerà metterlo nel conto. Ma che l’ingresso nel linguaggio politico e nel vocabolario delle forze in campo costituisca un evento inedito, destinato a provocare effetti di lunga durata, è fuori di ogni dubbio.
Qual è, dunque, l’approccio culturale suggerito dal “Manifesto convivialista”? In primo luogo la presa d’atto dell’intervenuto mutamento della struttura del mondo, carico da un lato di chances positive di emancipazione e di progresso a tutti i livelli (scientifico, tecnologico, educativo, sanitario, ecc.) e dall’altro di minacce alla pace e alla coesistenza, di rischi di imbarbarimento e di autentiche catastrofi (ecologiche, umanitarie, sociali, ecc.) che mettono in pericolo la sopravvivenza degli esseri umani sulla Terra e la vita stessa del pianeta. Sul piano della diagnosi del presente, il “Manifesto” individua la caratteristica saliente dell’epoca odierna nel predominio incontrastato della logica perversa del capitalismo finanziario, che si è estesa alla società globale al di là delle differenziazioni assunte sul piano degli Stati singoli o confederati in formazioni geopolitiche più vaste.
Opporsi a questa logica, che negli ultimi vent’anni ha prodotto diseguaglianze sociali spaventose e un fossato pressoché incolmabile tra concentrazioni inaudite di ricchezza patrimoniale da un lato e impoverimento crescente fino alla miseria estrema dall’altro, è il tema attorno a cui il “Manifesto” lavora da alcuni anni chiamando a raccolta associazioni della società civile e forze intellettuali di tutto il mondo (si veda il testo edito in questi giorni da ETS di Pisa, “Verso una società conviviale. Una discussione con Alain Caillé sul Manifesto convivialista”). In termini economico-politici, la prospettiva attorno a cui per il Manifesto occorre impegnarsi – per prove ed errori, naturalmente - è di immaginare e costruire in concreto un mondo “post-neoliberale”. Ciò, beninteso, non vuol dire affatto un mondo senza democrazia, bensì un mondo in cui i valori democratici non possono essere più vincolati al mito di una crescita illimitata del PIL. Il problema, in quest’ottica, non è di fare a meno (o tornare al di qua) della democrazia liberale che con le sue procedure e le sue regole garantisce un agonismo conflittuale di opinioni, credenze e culture che costituisce la spina dorsale della migliore tradizione liberale (da Croce a I. Berlin).
Il punto dirimente non è la vecchia diatriba tra democrazia rappresentativa (considerata spregiativamente formale) e democrazia diretta (presuntivamente sostanziale) che ha travagliato gran parte della storia del movimento operaio attorno alla questione: Riforma o Rivoluzione? Il punto dirimente è la qualità della democrazia rappresentativa. Potremmo chiamarla una democrazia del “dopo sviluppo”, vale a dire di una fase storica in cui viene meno il dogma su cui si sono fondate tutte le ideologie politiche della modernità (liberalismo, socialismo, comunismo, compreso l’anarchismo).
Che cosa dice in fondo questo dogma della religione della crescita? Che non può esistere democrazia sotto qualsiasi forma (rappresentativa o diretta) se non subordinandola alla crescita economica così come l’abbiamo conosciuta dalla prima rivoluzione industriale in avanti. Proseguire su questa strada ora non è più possibile a causa degli enormi problemi ecologici, climatici, morali, sociali che la cieca generalizzazione di questo paradigma “sviluppista” e liberista provoca sempre di più. D’altronde, la spia più drammatica di questo sisma antropologico di proporzioni planetarie è la migrazione dei popoli che attraversano continenti alla ricerca disperata di una vita migliore. Può essere la religione della crescita, con i disastri umani e materiali che produce, la risposta a questa rivoluzione in corso? Possono essere il protezionismo e l’innalzamento dei muri la salvaguardia delle identità nazionali (delle industrie, delle culture, delle religioni)? E qui veniamo per un momento al dibattito di casa nostra. La sinistra italiana è anni luce lontana da queste problematiche del “dopo sviluppo” ed è appesantita da una visione “sviluppista”, peraltro appresa in ritardo dalla socialdemocrazia europea quando ormai la situazione storica era radicalmente mutata.
Lo dimostra il fatto che al tema del reddito universale non dà alcun credito (salvo nella versione parzialissima, ma ancora non collaudata di Emiliano), come pure non riesce a dire nulla sul ruolo dello Stato imprenditore, sulla formazione e la ricerca, sui beni pubblici, sull’economia sociale e solidale, sul recupero di risorse ormai confiscate dall’evasione e dall’economia sommersa. Ma soprattutto su come coinvolgere i soggetti (persone e associazioni) in uno spazio rivitalizzato di democrazia civica approntando strumenti di decisione e di governo dei bisogni della vita quotidiana. C’è molto da pensare e da fare, ma la sinistra non si è ancora svegliata dal suo sonno dogmatico.
© RIPRODUZIONE RISERVATA