C'è bisogno di tempo e cultura per capire il significato delle migrazioni

di Antonio ERRICO
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Venerdì 30 Settembre 2016, 10:29
Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: “Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?”. I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: “Che cavolo è l’acqua?”.

Con questa storiella David Foster Wallace nell’anno accademico 2005 cominciava il discorso ai laureandi del Kenyon College. (Adesso si può trovare in “Questa è l’acqua”, Einaudi). Non saprei dire se Wallace pensasse a Marshall Mc Luhan quando diceva che se c’è una cosa di cui un pesce non ha consapevolezza è l’acqua in cui nuota. Il succo della storiella dei pesci è semplicemente che le realtà più ovvie, onnipresenti e importanti, sono spesso le più difficili da capire e da discutere. Questo vale anche per la realtà della cultura o, forse più esattamente, delle culture con cui ci confrontiamo ogni giorno, ogni ora. Per esempio: quasi mai ci domandiamo quali siano le motivazioni o le finalità di un comportamento, del nostro pensiero nei confronti dell’altro e delle relazioni che abbiamo con l’altro, non ci chiediamo per quale ragione cambiamo opinione rispetto a qualcosa, a qualcuno. 

Purché si eviti il male estremo che è quello di restare ingarbugliati nella matassa aggrovigliata e non saperne più uscire. Non si tratta di inconsapevolezza ma dell’acquisizione di un atteggiamento determinato da condizioni tanto naturali quanto culturali; nemmeno in questo senso facciamo intenzionalmente distinzione, perché la trasformazione si verifica attraverso un’integrazione e un’interazione di naturale e culturale e nel contesto di un processo costante di elaborazione della personalità e della nostra visone del mondo. 

Quarant’anni fa, quando cominciarono ad arrivare da queste parti i primi extracomunitari che vendevano tappeti sulle spiagge, avevano bancarelle nei mercati, giravano per i paesi spingendo i carretti di mercanzie, per i bambini, per le donne abituate al fruttivendolo paesano, per gli uomini che aspettavano mezzogiorno sulle panchine della piazza, parlare con loro era un’esperienza fuori dall’ordinario, che oltretutto richiedeva un impegno per nulla indifferente a livello di comunicazione, per cui tutti portavamo i verbi all’infinito, per esempio, pensando che l’indeterminatezza e l’approssimazione potessero facilitare la comprensione. 
Non molti giorni fa, per le strade di Lecce, ho chiesto un’informazione ad un senegalese che mi ha risposto in dialetto: nel mio dialetto. Quelle parole nella mia lingua di dentro, in quella lingua che spesso uso anche come personale resistenza all’italiano standard e piatto e inespressivo, mi hanno provocato una sensazione di reciprocità, di appartenenza. Quelle parole provenienti da un intimo “lontano” facevano diventare vicino il forestiero. E’ straordinariamente vero che la lingua accomuna, mette in comunione, crea comunità. 
Adesso, i figli e i figli dei figli di quegli extracomunitari ambulanti frequentano le nostre scuole, le nostre università, vivono accanto a noi, lavorano con noi. Abitano la nostra cultura e noi abitiamo la loro, le mettiamo insieme, e spesso, molto spesso, nemmeno ci si accorge delle differenze, oppure, accorgendosene, si considera assolutamente normale che esistano e si considera anche che le differenze sono una fortuna immensa. 

Come i due giovani pesci di cui diceva David Foster Wallace, non sappiamo dire cos’è né com’è l’acqua: ci siamo dentro, avvertiamo anche il freddo o il caldo, l’intensità della corrente, ma quell’acqua è il nostro universo. Di essa non potremmo fare a meno. Così è la cultura che ci avvolge con tutte le sue forme, nella quale ci coinvolgiamo, senza farci molte domande, senza congetturare sulle differenze. Anche quando rivolgiamo ad essa critiche, anche quando ci opponiamo, lo facciamo in quanto sentiamo che ci appartiene, intensamente. Qualche volta accade anche che la critica e l’opposizione siano determinate dalla nostalgia per quello che è stato, per il modo in cui siamo stati in un tempo precedente. Ma poi ci soffermiamo a riflettere e riflettendo ci rendiamo conto che anche prima avevamo nostalgia di un altro prima. Forse è anche normale che sia così, per ogni persona, per ogni generazione. 

Forse diventa meno difficile comprendere o discutere le realtà quando per natura e cultura si trasformano e ci trasformano. Accade con la storia, per esempio. Si può discutere e comprendere i fatti e i personaggi, quando i fatti e i personaggi si sono trasformati, trasformandoci. Finché si vive di giorno in giorno le cose che succedono, finché di quelle cose si è protagonisti, mentre si verifica l’impatto con gli eventi e si è completamente impegnati a governarli, comprenderli diventa complicato. Certo, si reagisce, ma frequentemente si tratta di una reazione emotiva o ideologica, si critica perché si pensa che le cose debbano andare diversamente, ci si oppone per dolore, delusione, malcontento, si discute perché l’evento spesso squaderna le consuetudini e le certezze, disarticola gli equilibri, introduce incognite nei sistemi di riferimento. Però comprendere profondamente è difficile davvero. 

Arrivavano gli ambulanti nei paesi, sulle spiagge. Venivano da un lontano sconosciuto. Tra coloro che vivevano qui, qualcuno avvertiva disagio, qualcuno avversione, qualcun altro diceva che anche lui era stato ambulante, in un luogo lontano, e conosceva altri che erano stati, che erano ambulanti in un luogo lontano. Il significato che aveva la loro presenza lo si è capito a distanza di tempo. 
Così, la marea delle migrazioni di quest’epoca, noi adesso possiamo discuterla sulla base delle nostre legittime ideologie, delle nostre altrettanto legittime paure, anche, delle consuetudini e delle certezze, degli equilibri, dei nostri sistemi di riferimento. Ma i significati profondi che assumono nei contesti delle nostre culture e nelle relazioni tra culture, noi potremo comprenderli proprio con i codici della cultura che sarà elaborata dal tempo, con l’esperienza e, probabilmente, anche con un po’ di saggezza che – si spera - l’esperienza ci potrà portare. 

Col tempo e con la cultura, non faremo più caso, se l’acqua è calda o se è fredda. Ci diremo semplicemente: questa e l’acqua, e continueremo a nuotare, sapendo bene che, per una condizione naturale e culturale, fuori dall’acqua non si sopravvive.
 
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