I consumi dei ricchi e le scelte del territorio

di Stefano CRISTANTE
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Sabato 24 Settembre 2016, 12:11 - Ultimo aggiornamento: 16:21
Marco Licinio Crasso, console e triumviro con Gneo Pompeo e Caio Giulio Cesare, era l’uomo più ricco del suo tempo. Erede di una cospicua fortuna, la incrementò a dismisura usando tutte le opportunità della sua epoca: guerra, edilizia e politica erano i suoi principali campi d’intervento. Si era fatto largo nel mercato immobiliare con una tecnica assai discutibile.

Faceva addestrare un certo numero di schiavi allo spegnimento d’incendi, frequenti nell’Urbe, e li spediva nei paraggi di edifici già attaccati dal fuoco. A questo punto si presentava un suo emissario a offrire alle famiglie disperate l’acquisto delle case a un prezzo che, per quanto basso, consentiva di non ripartire da zero. Conclusa la contrattazione, entravano in scena i pompieri, che riducevano il danno. Nelle settimane seguenti, Crasso mandava squadre di operai a riparare gli edifici, che poi o vendeva o affittava a un prezzo naturalmente maggiorato. Con la liquidità a sua disposizione, era in grado di mantenere un esercito, lo stesso che ebbe ragione della rivolta dello schiavo Spartaco. L’esistenza di Crasso – anche secondo l’opinione di storici illustri come Plutarco – fu contrassegnata dall’avidità. Si racconta che anche nel mezzo di campagne militari difficili fosse capace di dedicarsi ad acquisizioni, commerci e speculazioni, sua vera passione.

È sempre indispensabile che un super-ricco sia contraddistinto psicologicamente dall’avidità? Ma prima di tutto: cos’è un super-ricco? Per gli specialisti del settore, è un individuo che possiede almeno un miliardo di dollari. Come ha fatto tanti soldi? La narrazione otto-novecentesca è avvolta attorno alla figura del magnate, l’imprenditore industriale padrone delle ferriere e delle fabbriche, il capitalista che non ha paura delle imprese titaniche e che spiana tutto ciò che gli attraversa la strada. Il suo capitale è in grado di inglobare le resistenze a ciò che sarà raccontato come progresso. La sua volontà di potenza, unita a un fare esibitorio, è stata mirabilmente rappresentata da uno dei film più celebri della storia del cinema, Citizen Kane (Quarto potere, 1941), l’opera prima del geniale Orson Welles.

In quel film Charles Foster Kane, erede casuale di una gigantesca fortuna, crea un impero comunicativo attraverso acquisizione di giornali e radio. Kane non vince sempre: in politica si deve arrendere a chi ha meno scrupoli persino di lui. Finisce la sua vita in un palazzo gigantesco e pieno di opere d’arte, solo e invocando un giocattolo infantile, incapace di ricomporre la sua personalità nell’alterazione esistenziale dovuta al denaro illimitato. La figura del grande ricco della modernità arrembante ha perciò anche uno spessore tragico. Avvicinandoci ai nostri giorni, la globalizzazione cambia il capitalismo, cambia le enormi ricchezze e ne cambia le narrazioni. Appare difficile incontrare oggi un super-ricco proveniente dalle professioni classiche della modernità industriale: le nuove e gigantesche ricchezze vengono dal connubio di rete e nuova organizzazione del lavoro. Il capitale di Jeff Bezos, il boss di Amazon, deriva dagli spazi diretti di comunicazione tra consumatore e venditore apertisi con internet. Larga parte dei profitti di Bezos arriva dalla compressione dei salari di coloro che – in attesa di una completa robotizzazione dei magazzini – garantiscono individuazione, impacchettamento e spedizione della merce.

Il lavoratore ha una paga bassa ed è sottoposto a una precarizzazione crescente, mentre i ritmi di lavoro aumentano. Un’altra caratteristica del capitalismo globale è la sua rapidissima valorizzazione finanziaria: i miliardi veri si fanno (e si possono perdere) quando l’azienda approda in Borsa. E poi c’è la dimensione internazionale, che riorganizza i capitali attraverso delocalizzazioni della produzione e li proietta in articolazioni aziendali multinazionali. Rispetto a trent’anni fa, i patrimoni dei super-ricchi sono cresciuti in modo vistoso: attualmente non sono sufficienti 9 miliardi di dollari per entrare nella classifica dei 150 più ricchi del mondo. Dietro ai capitali ci sono però persone concrete, imprenditori in carne e ossa, da cui dipendono, in ultima analisi, le decisioni sulle strategie dei loro impiegati più costosi, i manager. Non tutti i super-ricchi fanno le stesse scelte: c’è chi, come Donald Trump e prima di lui Berlusconi e Ross Perot, opta per l’ingresso in politica, saldando così dimensione economica e di partito (spesso personale). C’è chi, come Bill Gates, sembra interessato principalmente alle attività filantropiche e assistenziali. Se Crasso continuava ad acquisire e speculare, Cosimo De’ Medici si avvicinava al mondo dell’arte e della cultura, e incaricava a sue spese Marsilio Ficino di tradurre in latino i dialoghi platonici. C’è chi tra loro compra una squadra di calcio e chi si intesta isole tropicali, chi sembra interessato solo a consegnare il proprio nome alla storia e chi a godersela a più non posso. L’esistenza dei super-ricchi, cioè di coloro che sono conteggiati tra lo 0,01 e lo 0,1 per cento della popolazione mondiale, rappresenta un indicatore significativo del capitalismo globale, nonché dell’ampliamento del cosiddetto “indice di Gini”, che misura le disuguaglianze. In questo sistema non vi è limite all’arricchimento, e quindi chi si trova nella condizione di poter usare miliardi di dollari sul mercato conta quasi come un’entità statale.

Di solito i mega-capitalisti badano a costruirsi residenze invalicabili e protette, oasi di ricchezza e di lusso che, tra gli altri vantaggi, hanno anche quello di nascondere le tante povertà dilaganti. Ma il vero gioco dei meno aridi tra loro è l’investimento in innovazione, che, da un punto di vista psicologico, vuole significare la modifica del mondo che hanno trovato. Ciò spiega alcuni equivoci di questi giorni. Si ha notizia, venendo all’Italia e alla Puglia, che nuovi divertimentifici vip sono all’orizzonte, saldando insieme ricchezze e celebrities, secondo un modello vecchio, sostanzialmente legato agli anni ‘80. La vera notizia sarebbe invece se un territorio che offre bellezza e qualità della vita potesse essere giudicato idoneo per investimenti d’innovazione e di ricerca. Nei posti dove si vive meglio dovrebbe essere più facile ed entusiasmante progettare il futuro, impresa che ha un valore sociale – cioè un riconoscimento – assai diverso dal profitto ottenuto sui consumi voluttuari dei ricchi o, più frequentemente, di coloro che vogliono farsi passare per tali.
 
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