Investimenti giusti per creare lavoro

di Guglielmo FORGES DAVANZATI
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Martedì 23 Agosto 2016, 12:04
L’economia italiana è a crescita zero, come certifica l’Istat nell’ultimo Rapporto. Vero è che bassi tassi di crescita si registrano in quasi tutti i maggiori Paesi dell’Eurozona (lo 0% interessa anche la Francia, a fronte del +0.4% della Germania e di una media UE dell’1.2% su base annua).

Vero è anche che, rispetto a quaranta anni fa, i tassi di crescita delle economie industrializzate sono notevolmente più bassi, inducendo molti economisti a prefigurare un percorso di stagnazione secolare.
Va tuttavia riconosciuta una peculiarità italiana, che ha natura strutturale: si tratta del drammatico crollo della produttività del lavoro, che declina, in Italia, da almeno un ventennio e a fronte del quale nessun Governo ha individuato una terapia efficace per farvi fronte. La caduta della produttività dipende da numerose circostanze, sulle quali, peraltro, non vi è accordo fra economisti di diverso orientamento teorico.
Con la massima schematizzazione, si possono distinguere due posizioni teoriche e di politica economica.
Il primo, di matrice liberista, imputa la riduzione della produttività del lavoro fondamentalmente a due fattori: a) la rigidità del mercato del lavoro e, più in particolare, la c.d. rigidità funzionale del contratto di lavoro; b) la rigidità dell’allocazione della forza-lavoro all’interno dell’unità produttiva. La logica sottostante questa diagnosi si fonda sulla convinzione che solo una credibile minaccia di licenziamento (ovvero di non rinnovo del contratto) può incentivare il lavoratore ad erogare un rendimento elevato. Diversamente, assunto che il lavoro è solo fonte di disutilità, il lavoratore tenderebbe a comportarsi da “scansafatiche”. Si tratta di un meccanismo noto come effetto di disciplina, in base al quale la produttività del lavoro, determinata qui esclusivamente da fattori motivazionali, cresce al crescere della probabilità di licenziamento. In più, viene argomentato che la produttività del lavoro può crescere anche come effetto di una maggiore efficienza organizzativa. Si fa riferimento, in questo caso, alla possibilità che l’imprenditore possa modificare, senza vincoli normativi, l’assetto organizzativo dell’impresa, anche, p.e., mediante demansionamento.

Questi due argomenti costituiscono le basi teoriche dei provvedimenti di deregolamentazione del mercato del lavoro. Occorre rilevare che le determinanti della produttività del lavoro sono molteplici e non riconducibili, come nell’impostazione dominate, a sole variabili motivazionali. La dotazione di capitale fisso, in particolare, influisce in modo rilevante sulla dinamica della produttività, così come le competenze acquisite dai lavoratori mediante scolarizzazione e learning by doing, così come anche la struttura demografica della forza-lavoro.
In ogni caso, sembra di poter rilevare, in particolare nel caso italiano, che i dispositivi normativi finalizzati a revalentemente finanziati dal credito bancario. In una condizione nella quale il Governo non intende attuare politiche industriali che contrastino il ‘nanismo imprenditoriale’ e, anche tramite il finfar crescere la produttività del lavoro per il solo tramite di un aumento del rendimento trovano la loro ratio nel fatto che le imprese italiane, nella gran parte dei casi e soprattutto nel Mezzogiorno, sono imprese di piccole dimensioni, con bassa propensione all’innovazione, i cui investimenti sono panziamento pubblico della ricerca di base e applicata, promuovano innovazioni, appare evidente che la sola altra opzione possibile – quella di fatto perseguita in Italia negli ultimi anni – sia la cosiddetta “via bassa dello sviluppo”. Che passa da misure di moderazione salariale e, per quanto rileva in questa sede, per politiche di deregolamentazione del mercato e del contratto di lavoro che possano eventualmente generare incrementi di produttività per il tramite di una maggiore intensificazione dello sforzo lavorativo.

Occorre puntualizzare che la reiterazione di misure di precarizzazione del lavoro ha di fatto contribuito a ridurre il tasso di crescita della produttività del lavoro. Ciò fondamentalmente per due ragioni:
a. La precarizzazione del lavoro riduce la propensione al consumo, generando, tramite un effetto di accelerazione, la conseguente riduzione degli investimenti e della produttività del lavoro. La precarizzazione del lavoro riduce la propensione al consumo dal momento che, assumendo ragionevolmente che l’obiettivo dei lavoratori occupati sia mantenere sostanzialmente stabile il proprio tenore di vita, essa si associa a un aumento dell’incertezza derivante dall’aumento della probabilità di licenziamento e, per conseguenza, all’aumento dei risparmi precauzionali.

b. La precarizzazione del lavoro riduce il tasso di crescita della produttività del lavoro dal momento che pone le imprese nella condizione di competere riducendo i costi (i salari in primis) e, dunque, disincentiva le innovazioni.
Peraltro, come rilevato dalla BCE, soprattutto nei Paesi periferici dell’Eurozona, “i capitali sono stati sempre più indirizzati verso settori poco esposti alla concorrenza, prevalentemente nell’ambito dei servizi, alla ricerca di rendite”: il che ha evidentemente contribuito ad accelerare il declino della produttività del lavoro, dal momento che è ampiamente noto che questa è significativamente più alta nel settore manufatturiero. Per quanto riguarda l’azione di questo Governo, va rimarcato che, anziché provare a intervenire post factum (ovvero dopo la pubblicazione dei dati Istat) con un piano di investimenti pubblici – i soli, in effetti, in grado di invertire la rotta - si poteva evitare negli scorsi anni di elargire miliardi di euro alle imprese per incentivarle ad assumere con contratti a tutele crescenti per cercare, per questa via, di spendere elettoralmente i successi del Jobs Act. Miliardi di euro che hanno dato esiti, in termini di creazione di nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato, estremamente deludenti.
 
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