Il senso della comunità nelle nostre mani giunte

di Alessandro PERISSINOTTO
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Mercoledì 31 Agosto 2016, 16:15 - Ultimo aggiornamento: 16:32
“Il generale cordoglio era presente tra la folla che assisteva ai funerali”. Questa era la formula che, fino agli anni ’30, ricorreva, retorica e banale, in tutti gli articoli giornalistici che riferivano di funerali di Stato e quel “generale cordoglio”, nell’immaginario di chi da poco aveva cominciato a utilizzare la lingua italiana, diventava il Generale Cordoglio, un graduato incaricato di rappresentare le massime autorità ad ogni cerimonia funebre. Non ho mai saputo se questa del Generale Cordoglio fosse solo una battuta da avanspettacolo o se davvero qualcuno credesse nell’esistenza di un delegato di Stato alle sciagure, ma, quale che sia la verità, è chiaro che spesso la presenza delle più alte cariche dello Stato in occasione di eventi luttuosi è stata interpretata come pura manifestazione formale di uno Stato indifferente e distante. Ieri però, ad Amatrice, si è visto qualcosa di diverso; l’immagine di Mattarella e di Renzi di Boldrini e di Grasso in mezzo alla gente, a parlare con la gente, era un’immagine di autentica condoglianza, nel suo senso più primitivo: con dolere, soffrire con gli altri.

“Questo è il momento delle lacrime” aveva detto il Presidente del Consiglio arrivando ad Amatrice all’indomani del sisma; una frase coraggiosa perché lontana da ogni spavalderia e da ogni polemica, una frase coraggiosa perché accetta la fragilità dello Stato, una frase coraggiosa perché, con umiltà, riconosce il dolore come collante della nazione. Quando perdiamo una persona cara abbiamo bisogno di non sentirci soli di fronte alla sofferenza e a questo servono le condoglianze, a marcare l’accento su quel prefisso “con” che sconfigge la solitudine. Gli abitanti dei luoghi colpiti dal terremoto hanno chiesto una sola cosa allo Stato, hanno chiesto di non essere lasciati soli e la condivisione del dolore è il primo passo che l’Italia deve fare per sconfiggere quella solitudine. Essere Presidente della Repubblica o Presidente del Consiglio significa anche questo, significa anche essere rappresentanti di un dolore collettivo, essere la personificazione di un sentimento generale. Sembra scontato, ma non lo è, non è facile dismettere la divisa del Generale Cordoglio e rappresentare lo Stato con tutta l’umanità che ci vuole; non è facile, ma quando questa magia avviene, il Paese, anche un Paese solcato da mille fratture come l’Italia, ritrova unità. Per ritrovare una situazione simile vado con la memoria a Pertini, al Pertini che richiama lo Stato alle sue responsabilità dopo il terremoto dell’Irpina, ma soprattutto al Pertini che, il 12 giugno del 1981, si reca a Vermicino per rendere fisicamente presenti tutti gli italiani intorno al pozzo dove si sta lottando per la vita del piccolo Alfredino Rampi. Pertini vicino a quel pozzo artesiano era lo Stato quando dimentica per un attimo le sue funzioni di comando, di coercizione, di regolazione e ritrova la sua natura di comunità che respira allo stesso ritmo di un singolo individuo in difficoltà. Ieri, ad Amatrice, la presenza delle massime cariche è riuscita ad avere lo stesso significato e in questo dobbiamo riconoscere il merito di Sergio Mattarella e di Matteo Renzi.

Ma il terremoto dell’Italia centrale ha davvero ricucito le ferite di questo Paese? No, non illudiamoci. Ma, al tempo stesso, non minimizziamo la portata di quanto è avvenuto, non dimentichiamo l’inedita efficienza della macchina dei soccorsi e non dimentichiamo quel patto che Mattarella e Renzi ieri hanno siglato con gli abitanti di Amatrice, non dimentichiamoci che loro lo hanno firmato a nome nostro, di tutti gli italiani. È troppo ingenuo pensare che il Grande Dolore abbia cambiato il Paese e forse lo è anche il credere che, da domani, ognuno di noi si sentirà vincolato da quel patto, che nessuno evaderà più le tasse per contribuire alla ricostruzione, che nessuno speculerà sul dopo-terremoto. Ma se, anche solo per un giorno, le mani di Renzi e di Mattarella che stringevano quelle di chi ha sofferto sono state le nostre mani, se anche solo per un giorno abbiamo sentito lo Stato non come un nemico ma come l’essenza stessa del vivere insieme, il “momento delle lacrime” non sarà passato invano.
 
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