Un patto tra l'impresa e i lavoratori per crescere

di Chiara MONTEFRANCESCO
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Giovedì 22 Settembre 2016, 12:58
Il Mezzogiorno ha il suo Masterplan ed anche la Puglia ha il suo patto per lo sviluppo. È stato sottoscritto in occasione della inaugurazione della Fiera del levante a Bari dieci giorni fa. Circa 3,5 miliardi di euro tra risorse europee e nazionali. Al patto per la Puglia si aggiunge il patto per Taranto che può contare su una dotazione anch'essa notevole.

Notevole se si sommano le risorse per il rilancio del porto, delle aree retro portuali, dell'arsenale e per il risanamento ambientale ex Ilva. Ovviamente non vanno dimenticati, anzi, i fondi europei 2014/2020. Piuttosto consistenti, circa 7 miliardi di euro complessivamente. Insomma un bel "tesoretto" da spendere nei prossimi anni in Puglia. Per il rilancio del suo sistema infrastrutturale, il sostegno della sua economia.
Eppure, stando agli analisti più attenti ed alle previsioni degli istituti di ricerca, da qui al prossimo 2020 il Pil resterà al palo in Puglia così come nel resto del Mezzogiorno. In verità c'è anche il rischio di un qualche arretramento. Sì, perché se è vero che tra patti per lo sviluppo e fondi europei, la Puglia, e l'intero Mezzogiorno, potranno contare su una buona dotazione finanziaria, è altrettanto vero che su di essi continua ad incombere il taglio della spesa pubblica, imposto dal fiscal compact europeo che, sempre secondo le stime degli analisti, potrebbe tradursi in un effetto recessivo per circa mezzo punto percentuale di Pil all'anno. Ed inoltre rimane da valutare la tempestività con cui quelle risorse verranno impiegate. Storia e cronaca lasciano più di qualche perplessità.

E allora? Sorge spontanea la domanda: gli investimenti previsti in infrastrutture, che sono cospicui, provocheranno un effetto moltiplicatore sull'economia? E quelli per il sostegno della ricerca e l'innovazione? Serviranno a spingere la nostra capacità competitiva? Sorge il dubbio che ci si trovi davanti ad una sorta di sterilizzazione delle risorse. Che certo devono essere spese: vi sono lavori da fare, opere da realizzare, operai da impiegare e aziende da mantenere, da rassicurare. Che poi l'opera serva o meno è secondario!
La competitività del sistema Puglia o del Mezzogiorno, ma anche dell'Italia, è un'altra cosa. Le infrastrutture? Certo. I trasporti e la logistica? Assolutamente. Il credito? Se ne può parlare, sia pure con molti, troppi distinguo. Le dimensioni aziendali, troppo piccole per un mercato troppo grande. E penalizzanti. Come se ne esce? L'argomento non è all'ordine del giorno. E la loro dotazione patrimoniale, troppo esigua, addirittura insufficiente? Non è propriamente un problema del governo, nazionale o regionale!
Le condizioni di competitività fuori dai cancelli aziendali sono disastrose. Basti pensare alle micro interruzioni di energie elettrica, quelle che ti mettono fuori uso gli impianti e che devi neutralizzare con costosi gruppi di continuità. O alle comunicazioni telefoniche di intere zone industriali che vanno in tilt per un acquazzone e ti isolano per settimane costringendoti a soluzioni fantozziane pur di lavorare.
E la pressione fiscale insostenibile, dove la mettiamo? E le tentazioni di andare ad investire dove ti assicurano un regime di tassazione "umano"? All'Est, in Albania, nei Balcani. Magari in Regno Unito dove, dopo la Brexit, si accingono a varare un'aliquota onnicomprensiva pari al 17%? Non scherziamo! Siamo sempre italiani e pugliesi, innamorati della nostra terra. Tutto vero. Ma, secondo l'Europa, il problema fondamentale è il lavoro, la sua organizzazione, il suo costo. Troppo rigida la prima, insostenibile il secondo.

Ecco, a ben pensarci tutti i problemi della competitività nostrana, regionale, meridionale, nazionale, sarebbero concentrati sul lavoro. Che deve diventare flessibile, precario, a buon mercato. Con buona pace della retorica sull'eccellenza del made in Italy. Soprattutto non potendo disporre di una moneta a cambio flessibile da manovrare sul mercato internazionale. E con buona pace della retorica sulla ricerca e sull'innovazione. Alla fine quel che conta sono i costi. Se tu, azienda, vuoi battere la concorrenza! E se tu, lavoratore, vuoi conservare il tuo posto di lavoro!
Ce lo hanno spiegato da quando l'economia è diventata "scienza" che le cose funzionano in questo modo. Certo le rivoluzioni industriali si fanno anche con le innovazioni, epocali o incrementali che siano, ma finché vi è abbondanza di manodopera sottopagata se ne può fare a meno. L'umanità ne ha fatto a meno per millenni. Gli storici ci dicono che già nel primo millennio prima di Cristo, i Greci e, dopo, i Romani, ed ancora successivamente gli Stati nazionali, avevano le conoscenze tecniche e scientifiche per rivoluzionare la produzione ed il sistema economico. Non vi era l'interesse. Gli schiavi erano il più grande motore e a costo zero dell'economia.
La dottrina ordoliberista, o neoliberista, quella professata dall'etablishment che governa il mondo e l'Unione Europea, e che disciplina il mercato globale, ha individuato nel lavoro e nel mercato del lavoro, gli snodi fondamentali per un efficace funzionamento del sistema dove, alla fine, la paura del licenziamento da un lato e la libertà di licenziare dall'altro fanno la differenza. Non è il mercato descritto da Smith o Ricardo o anche Marx. Un luogo fisico o virtuale, piccolo o grande, in cui il libero incontro della domanda e dell'offerta crea l'equilibrio dei costi, della produzione e dei consumi. Ma il mercato-Moloch dominato dalla grande finanza speculativa che disciplina e governa domanda, offerta e consumi (i consumi inutili di cui parlava Marcuse negli anni 60/70!) in funzione del suo superiore interesse.

Dopo aver rischiato di morire tutti democristiani prima e comunisti poi, moriremo, questa volta davvero, tutti ordoliberisti, Come dice Lelio Demichelis su micromega (numero 6/2016)? No, se ancora una volta l'intelligenza farà la differenza. Per esempio con un grande patto tra industria e lavoratori che adotti come criterio guida per disciplinare il rapporto impresa/lavoro, il contratto di secondo livello, quello stipulato sul territorio, ma con il presupposto della responsabilità del datore di lavoro e del lavoratore nel rispetto della dimensione sociale dell'impresa, in vista dello sviluppo dell'azienda, della crescita del territorio e del benessere sociale. A ben guardare lo ha già fatto Adriano Olivetti, lo fecero Enrico Mattei, Pietro Ferrero, lo fanno ancora oggi tante imprese di successo anche qui nel Sud, in Puglia.
La strada è spianata. Perché non percorrerla?


 
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