La disperazione e l'ovvietà in diretta tv

di Stefano CRISTANTE
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Sabato 27 Agosto 2016, 11:50
Chiunque abbia vissuto una forte scossa di terremoto è in grado di testimoniare che si tratta di una sensazione che toglie il respiro. A me è successo nel ’76, da ragazzo. La scossa che avvertii era l’esordio roboante del terremoto che colpì il Friuli, che si avvertì con violenza anche a Venezia.
Ricordo che mi ero sdraiato sul letto e che, prima di precipitarmi fuori dalla stanza per raggiungere i miei genitori, rimasi per un attimo a fissare il lampadario, che letteralmente sbatteva da una parte all’altra del soffitto. Nello stesso tempo la sensazione immediata era una folle paura ancestrale: che tutto crollasse e che la terra si aprisse, inghiottendomi senza speranza nelle viscere della terra.

Di tutte le forme di cataclisma, il terremoto è probabilmente quella che gli esseri umani percepiscono come irrimediabile, come violenza invincibile. Gran parte dell’Italia è costruita lungo faglie irrequiete, il cui risveglio, a volte terrificante, è di difficile vaticinio. Perciò gli italiani sono tra le popolazioni che più devono esorcizzare la concreta paura di un evento sismico grave e violentissimo. Si deve, a partire da queste constatazioni, agire nell’unico modo razionale possibile: cercando di edificare case ed edifici che reggano la competizione con l’estrema sismicità del territorio, come è stato fatto in altri, persino più tellurici paesi. Ciò spetta alla politica, e qui il discorso si fa complicato (perché, pur essendo a conoscenza da decenni di queste informazioni, non diminuisce la drammaticità dell’impatto sismico sul territorio?). C’è però un altro aspetto, in questi giorni dominati dalla distruzione di Amatrice, di Pescara del Tronto e di altri comuni del centro Italia, che ci vede coinvolti tutti, e riguarda il trattamento mediatico del terremoto del 24 agosto e del suo sciame sismico. Quando si diffonde la notizia di un grande evento drammatico, la normale programmazione mediatica salta: vi si sostituisce – almeno nel periodo immediatamente successivo all’evento – una lunga diretta televisiva (e radiofonica), una saturazione delle prime pagine dei giornali e un frenetico attivismo monotematico sui social. La tv vive di immagini: che l’evento sia un sanguinario attentato terroristico o un terremoto la grammatica di fondo non cambia.

Ricordate la notte di Vermicino? L’Italia si strinse attorno alle telecamere della Rai che raccontavano una disgrazia singola, ma straziante. Un bambino era intrappolato in una buca profondissima, e nessuno riusciva a salvarlo. Fosse capitato a pochi metri da noi, saremmo stati mossi dal desiderio di essere presenti anche senza poter fare nulla per il povero Alfredo Rampi. Come fece Pertini, il nostro Presidente, rigido e inamovibile sul luogo tragico di Vermicino sino alla sua triste conclusione. Una comunità, ci disse all’epoca la televisione generalista, si tiene insieme anche nel dolore e nella sofferenza, non solo quando arride un successo sportivo. Fu uno choc per molti, e una svolta nell’informazione. Anche l’Italia era entrata nella logica dei “grandi eventi mediali”, una definizione coniata dai sociologi Katz e Dayan nel 1992, cioè momenti di mediatizzazione estrema concentrati su “incoronazioni” (di sovrani o di papi), matrimoni (Lady Diana) e funerali (da quello del presidente Kennedy in poi), grandi manifestazioni sportive come le Olimpiadi, sfide tecnologiche come l’allunaggio del 1969. L’Italia era entrata nella nuova logica con un fatto particolare e non previsto, la tragedia di un bambino che nessuno, nonostante gli sforzi, riuscì a salvare. Le polemiche furono aspre, ma alla fine sembrò alla maggioranza che la scelta della Rai fosse condivisibile.

A partire da allora, occorrerebbe inserire nella lista dei “grandi eventi mediali” ogni avvenimento drammatico che si può seguire in diretta. In Italia, poco dopo le prime scosse di martedì notte la macchina dell’informazione si è messa in moto. Le immagini non mancavano e non mancano, così come volti da far entrare in una telecamera. Che cosa c’è di davvero importante nel mostrare un disastro anche a chi non l’ha vissuto? Qui non c’è discussione: le immagini vanno mostrate per consentire a tutti di capire cos’è successo, qual è stata la gravità dell’evento. Poi c’è il mondo dei soccorritori, della Protezione Civile e dei volontari, quelli che appena possibile arrivano sul luogo del disastro e cominciano a fare, a scavare, a organizzare le prime strutture di ricovero. Nel mentre il disastro è in atto occorre, da parte di questi soggetti, comunicare? Certamente sì, perché in breve tempo i soccorritori hanno un’idea della gerarchia delle emergenze, delle necessità più o meno impellenti e possono, attraverso gli schermi televisivi, raggiungere tante persone e dare una misura degli aiuti necessari. Poi ci sono le istituzioni. Hanno rappresentanti locali e nazionali, e spesso l’atteggiamento non può essere lo stesso, tanto è vero che un sindaco può scoppiare in lacrime per il dolore della fine della sua comunità, mentre un capo di governo e dello stato deve mantenere un atteggiamento partecipe di solidarietà. Ho lasciato volutamente per ultime le vittime del terremoto, perché si tratta del soggetto più fragile, su cui l’atteggiamento dei media deve essere maggiormente responsabile.

Cosa si aggiunge alla qualità della partecipazione e dell’informazione pubblica chiedendo a un sopravvissuto che ha perso tutto “Scusi, come si sente in questo momento?”. A cosa serve far parlare persone che hanno perso intere famiglie chiedendo com’erano il marito, il figlio, la sorella e “Cosa ha provato al momento della scossa”? Si pensa forse di contribuire all’elaborazione del lutto da parte dei sopravvissuti? Analogamente, risulta assai indigesto per un telespettatore, dopo aver assistito alla conferenza stampa di un responsabile dei soccorsi, sentir declinare le stesse domande a soccorritori generici, certamente impegnati nelle operazioni e altrettanto certamente meno informati del loro responsabile. Ogni tipo di mediatizzazione concentrata rischia di trasformarsi in una pornografia del dolore. C’è un unico antidoto: un’estrema sobrietà comunicativa. Distinguendosi non solo da ciò che un’irriducibile minoranza di anonimi esternatori fa su Facebook, dove anche il terremoto diventa occasione per attaccare altri infelici (profughi che ruberebbero l’albergo ai terremotati e altre infingardaggini), ma anche dall’esibizione ostentata di una sofferenza che ci attraversa tutti, silenziosamente.
 
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