Ricostruire senza commettere i soliti errori

di Giuseppe BERTA
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Sabato 27 Agosto 2016, 11:54
“Ricostruire” è la parola d’ordine che risuona dopo ogni terremoto e ogni catastrofe naturale. Declinata come un imperativo, questa parola diventa uno slogan che risponde soprattutto a un’esigenza di rassicurazione nei confronti delle vittime e dell’opinione pubblica, le quali per superare il momento dell’emergenza più acuta devono poter sperare che la vita in futuro riprenderà come prima.
Naturalmente, molti non credono che sarà possibile e in special modo dubitano che una ricostruzione possa avvenire in tempi prevedibili e solleciti. A pensarla così sono anzitutto i sopravvissuti, che davanti alle macerie delle loro case temono che la loro esistenza abbia subìto una ferita non più sanabile. Ce lo ricordano le voci degli anziani, intervistati in questi giorni nelle tendopoli in cui sono ricoverati dopo il terremoto, i quali non riescono a immaginare che l’ambiente a loro caro possa essere ricostituito così com’era.

Hanno indiscutibilmente ragione. Ricostruire i borghi dell’Appennino che sono andati distrutti appare impossibile. Essi erano il prodotto di un accumulo secolare di storia, modi di vita e tradizioni, che il sisma ha cancellato di colpo con una frattura di indicibile violenza. È chiaro che non potrà essere ricostruito quel concentrato di storia, arte e cultura che era rappreso nelle pietre posate da secoli e secoli. La problematicità di un’operazione di recupero traspare dalle dichiarazioni rilasciate dallo stesso sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, che in un’intervista si è spinto fino a ipotizzare che il suo borgo possa essere raso al suolo per venire poi riedificato, con un ripristino del suo “patrimonio storico e architettonico originario”, risalente al Quattrocento. Un compito immane, specie se si considera che la già scarsa popolazione dovrebbe attendere per parecchio tempo la conclusione di lavori così ingenti.
Stiamo parlando, nel caso di Amatrice, di un centro situato a quasi mille metri di altitudine, che è soggetto da quasi cento anni a un processo di declino strutturale, messo in luce dal calo della popolazione. Oggi essa è pari all’80% di quel che era agli inizi del Novecento, quando Amatrice aveva quasi 11mila abitanti. Non c’è stato bisogno di aspettare gli anni del “miracolo economico” per assistere all’abbandono del territorio, cominciato fin dagli anni Trenta, quando i residenti avevano preso ad andarsene. Così, molte delle case non sono più stabilmente abitate: appartengono ai nipoti di coloro che se ne vennero via tanti anni fa e si sono trasformate assai spesso in abitazioni temporanee, in cui ci si recava in villeggiatura per qualche settimana (a Saletta, frazione di Amatrice con 13 residenti, i morti sono stati 22). Certo, i legami col paese d’origine non sono stati recisi del tutto, ma si sono allentati e ciò ha inciso sulla tenuta materiale dei luoghi, che ne hanno risentito.

Chi è rimasto testimonia della difficoltà di mantenere attività tradizionali come la pastorizia. Alla televisione c’è stato chi è lamentato perché occuparsi di un gregge è oggi persino più duro di una volta: c’è poca gente, rari pastori e i lupi si sono fatti aggressivi, al punto che non si può mai togliere l’occhio dalle pecore. La natura aspra dell’Appennino riprende il sopravvento, non appena la presenza umana si fa rarefatta, talora fino a desertificarsi. E se l’uomo si ritira, smette di curare luoghi che sono sì affascinanti, ma che senza una tutela costante ridiventano ben presto inospitali, allora ci si possono aspettare delle brutte sorprese.
La bellezza dei borghi dell’Appennino, che guardiamo con rimpianto nelle immagini di questi giorni, è il prodotto di uno straordinario accumulo storico del lavoro di piccole comunità, le quali erano riuscite a costruire, attraverso esistenze faticosissime, un equilibrio tra economia rurale, pastorizia e territorio. Troppo spesso tendiamo a dimenticare che il paesaggio italiano – come amava ricordare Luigi Einaudi, un grande economista che conosceva come pochi l’Italia profonda - è il risultato di una paziente opera condotta nel passato dal succedersi delle generazioni contadine. Esse ci hanno tramandato quei borghi che ci attirano soprattutto nei momenti di pausa, quando interrompiamo la vita cittadina e le nostre occupazioni abituali.

Tuttavia, queste belle comunità che ci richiamano nei giorni di vacanza non hanno trattenuto nel secolo scorso la gran parte della popolazione, che ha preferito affidare le proprie speranze di miglioramento sociale alle città. Del resto, il dato più importante della popolazione mondiale di oggi non è forse quello relativo alla concentrazione delle persone nelle aree urbane, che crescono ovunque a vista d’occhio? La conseguenza inevitabile è il decadimento di quei borghi rurali che non offrono le stesse opportunità della vita cittadina. Il territorio quindi non è più presidiato dal lavoro di contenimento dell’uomo. A ciò si è aggiunta la colpevole incuria di chi ha trascurato il rischio sismico presente dappertutto nel nostro sottosuolo e non ha provveduto ad adeguare nemmeno gli edifici pubblici che avrebbero avuto bisogno di tutela.

Il terremoto è destinato ad accentuare la spinta centrifuga della popolazione dalle zone toccate dal sisma. È bene tenerlo presente, allorché si avvia ogni discorso sulla ricostruzione. Per ricostruire occorre che vi siano le condizioni di sussistenza economica per le comunità di persone che dovranno abitare i luoghi da riedificare. Altrimenti, si corre il pericolo di condurre operazioni sterili e inefficaci. Così come va rammentato che il declino ambientale è anche l’effetto del declino sociale ed economico di realtà incalzate dalla caduta demografica. Prima di lanciarsi in prospettive avveniristiche di ricostruzione va insomma valutato il grado di sostenibilità economica, oltre che ambientale, dei borghi da riedificare. Questo per il rispetto che in primo luogo si deve alle persone e alle famiglie colpite dal terremoto, costrette a fronteggiare un periodo di disagio, da ridurre il più possibile.
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