Separarsi e combattersi. Vizio dell’italica gente, fin da Romolo e Remo

di Stefano CRISTANTE
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Domenica 19 Febbraio 2017, 17:56
Gli italiani hanno la scissione nel sangue? Si potrebbe andare a ritroso nel tempo, e rinvenire le tracce, nella nostra storia, di popolazioni molto diverse l’una dall’altra fin dai tempi primordiali. Il primo problema, affrontando il nodo antropologico della “scissione”, è infatti quello del “corpo” da cui si procede scindendo parti. In ambito leggendario, persino la città di Roma è nata da una scissione. Una scissione familiare nefasta, visto che uno dei due fratelli fu ucciso per mano dell’altro. Eppure la storia di Roma è raccontata quasi interamente sul versante della gloria, come se gli antichi cantori avessero preconizzato che quando si vuole fare sul serio occorre separarsi, e che la divisione può portare alla sfida, al duello e persino alla morte. Una scissione doverosa con annesso fratricidio finale, rito sacrificale potente di cui si imbeve la terra che ne è testimone.

Dall’omicidio leggendario di Remo alla caduta dell’Impero romano passano più di mille anni, durante i quali la minuscola città di pastori diventa città eterna, assorbendo le fratture politiche, religiose e culturali che si presentano a ogni nuova annessione, definendo una civitas romana globale indipendentemente dal luogo di nascita del cittadino: scissioni alla luce del sole non ne ve sono, e quando si opera lo strappo dalla res publica all’imperium Ottaviano Augusto garantisce unità e potenza, relegando potenziali scissionisti nel ruolo di impotenti sabotatori. Quando alla fine l’Impero cade, la turbolenza barbarica porta un’inedita frammentazione, e l’Italia diviene una terra dove ci si divide, ci si combatte e si dura assai poco in carica come regnanti. Il tempo lento del Medioevo conferma l’impossibilità di tenuta unitaria di una coscienza comune, e la divisione politico-militare tra città perennemente in lotta tra loro (marinare, ma poi terrestri) caratterizza l’epoca dei comuni e anche quella delle signorie. L’iniziativa politica giocata verso l’esterno (ricerca delle alleanze) viene praticata da tutti, ma sovente non mette al riparo dall’iniziativa che può esplodere all’interno (ribellione, insurrezione, rivolta, rottura dei patti di governo). Non so se le radici dell’Italia di oggi possono essere fatte risalire a tempi tanto lontani, ma nel nostro paese sentir parlare di guelfi bianchi e neri fa parte del corredo nozionistico diffuso.
Il corpo politico italiano e l’idea stessa di patria non reggono nemmeno sul fronte dei nuovi patrioti della modernità: la Carboneria è associazioni dai mille contrasti e dalle mille diverse ispirazioni ideologiche, Mazzini un agit-prop che sembra un prelato, Cavour un genio tattico pronto ad allearsi e a disertare ogni nuova alleanza a seconda dell’evolvere dei fatti. Lo stesso Garibaldi è enigmatico: era un massone e un carbonaro mazziniano, e – abile a muoversi nel mondo globale delle lotte per le indipendenze nazionali – non ebbe nemmeno bisogno di abiure o di creare nuovi partiti: fece parlare l’azione guerrigliera per suo conto. Ma, anche se la sua vita fu il contrario di una scissione (basti pensare agli episodi di Teano e all’“Obbedisco” pronunciato in terra d’Aspromonte), terminò la sua esistenza in un’isola lontana dalla politica romana.

Le grandi figure ottocentesche ci indicano dunque un terreno accidentato antropologicamente per realizzare concordia e compattezza ideologica e operativa, ma anche nel ‘900 la situazione non migliora. I nostalgici di Mussolini, che rammemorano un’Italia “stretta intorno al suo duce”, dimenticano non solo la violenza criminale messa in atto dai fascisti per piegare gli oppositori, ma anche le intime divisioni e l’istinto scissionistico del regime. I fascisti italiani erano divisi tra squadristi e diplomatici conservatori, tra avanguardisti e reazionari, tra intellettuali esoterici e burocrati efficientisti. Ciascuno di questi settori avrebbe preteso un proprio “partito”, pretesa che è già di per sé l’anticamera della scissione, evitata, fino a che fu possibile, dall’immagine soverchiante e assoluta del Capo. Anche i nazisti ebbero le loro minacce di scissione, cui risposero con l’eliminazione fisica dei vertici delle SA voluta da Hitler (“Notte dei lunghi coltelli”, 29-30 giugno 1934).
L’Occidente ha sopportato, nel suo complesso, numerose scissioni e anche alcuni scismi, cioè le scissioni religiose: lo scisma luterano in ambito cattolico, lo scisma sciita in quello islamico. Il primo si è normalizzato a fatica nel corso dei secoli, il secondo è ancora carne viva dei musulmani, le cui reciproche accuse di eresia sono parte degli scontri bellici e delle dinamiche dei nuovi terrorismi fondamentalisti.

In generale, le operazioni che portano alla convergenza di interessi (economici, territoriali, culturali e religiosi) partono sempre dall’aggregazione lenta e progressiva di attori diversi che giungono a costituire un edificio unitario (partito, sindacato, rete, Stato). L’altro modo che in genere viene descritto – l’insorgenza carismatica – tende a dare vita a rapidissime conurbazioni, sia ideologiche che bellico-politiche, che si espandono come i territori di un giocatore di Risiko eccezionalmente fortunato ai dadi. In genere le fortune di quel particolare giocatore “carismatico” tendono prima o poi ad allinearsi alle sequenze del calcolo delle probabilità: se era eccezionalmente propizia nelle mosse d’avvio, può ragionevolmente girarsi nel suo opposto. La vita occidentale consiglierebbe dunque prudenza nelle iniziative scissionistiche, sovente portatrici di stagioni di intolleranza, di disgregazione di quanto edificato, di debolezza da parte dei soggetti che si scindono. E tuttavia non si può dimenticare la constatazione sociologica che gli organismi semplici tendono a diventare complessi. Quanto più aumenta il grado di complessità tanto più cambia la sostanza originaria di ciò che abbiamo chiamato “corpo”, cioè la materia politicamente scindibile. La tenuta obbligatoria di un corpo e l’assenza di ogni tendenza scissionistica non si addicono alla politica moderna: quando i presupposti generali che avevano spinto alla precedente aggregazione non ci sono più, è vano tentare di bloccare il baratro con gli appelli patetici all’unità. Quando all’interno di uno stesso partito le opinioni divergono sensibilmente su materie-chiave, stare insieme diventa impossibile. Suggerisco che possa essere mancata una domanda preventiva: si era certi che unire diversità sostanziali in un unico (magari più consistente) soggetto politico non avrebbe contemplato fin dal principio l’alta probabilità di una scissione a orologeria?
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