Nella Grotta dei Cervi il passato e il futuro di una terra

Nella Grotta dei Cervi il passato e il futuro di una terra
di Stefano CRISTANTE
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Sabato 15 Aprile 2017, 06:10 - Ultimo aggiornamento: 18 Aprile, 19:31
C’è un posto, nel mondo, dove la storia non scorre, e dove si perde la cognizione dello spazio e del tempo. È un luogo buio, segreto, antichissimo. È nel Salento. È visitabile, per la sua fragilità ecosistemica, solo da rari studiosi per motivate esigenze di ricerca. È una grotta. Ce ne sono tante nel nostro paese.
E infatti in Italia sono attivi più di duecento gruppi speleologici, con cinquemila persone coinvolte attivamente nella pratica. Quella dei Cervi, a Badisco, è però una grotta speciale. Non solo è ampia e articolata in vari segmenti e cammini, ciascuno arredato da esibizioni di gocce d’acqua sulla pietra che hanno preso, nei millenni, le forme di stalattiti e stalagmiti piuttosto rotondeggianti e disneyane. La grotta dei Cervi è speciale per il fatto che, illuminate dalla torcia sui caschi dei visitatori, vivono sulle pareti narrazioni grafiche risalenti a circa ottomila anni fa. A consentire la conservazione di questo patrimonio preistorico, artistico e culturale, ha provveduto una sorta di tappo di fango e detriti che, per secoli, ha ingannato l’uomo sulla realtà sotterranea nei pressi dell’insenatura di Badisco. Nel 1970 il ritrovamento speleologico e quindi una complessa serie di indagini archeologiche, la cui prima sistematizzazione avvenne sotto la guida di Paolo Graziosi, luminare dell’Università di Firenze.
Esistono diversi repertori fotografici sulla grotta, e quindi sono in molti a conoscere alcune immagini di Badisco. Dopo alcuni metri condotti carponi, nella grotta il buio è scalfito solo timidamente dalla lampadina sul casco. Quando è possibile rialzarsi e percepire una volta ampia sopra le teste dopo i cunicoli appena percorsi, i dipinti sono lì, a un passo. Sono vivi. Parlano inizialmente un linguaggio rosso: la tinta che resiste da più tempo nella grotta, e che ha dato vita alle forme narrative probabilmente più antiche del sito, è ocra rossa. Si potrebbe anche restare ore a fissare quel gruppo zoomorfo dove convivono diverse agitazioni di esseri strani, forse uomini o forse simbionti, a cui il rosso procura un grado di vivacità in più. Ma è solo l’inizio. L’ocra rossa cede subito il passo a numerosissimi episodi grafici condotti con linea nera, ricavata dal poco nobile guano di pipistrello, tuttavia resistente nei millenni. Le figure incalzano, e cominciano a scherzare con il visitatore: un gruppo di segni aggrovigliati e tuttavia animati da intime simmetrie, come potrebbe apparire una città vista dall’alto.
Molti animali, alcuni dei quali appaiono disegnati in modo accurato e realistico, altri sproporzionati o misteriosamente allusivi. Spirali. Figure filiformi sistemate in un’articolazione che trasmette movimento. Quadrati e triangoli riuniti in un ordine che sembra rappresentare una riunione comunitaria, e ancora forme elementari poste forse a custodia di qualcosa. Una figura straordinaria che sembra un re danzante. L’enigma di questa narrazione prende subito alla gola il visitatore, investito all’istante della sorpresa costituita da segni che appaiono concepiti secondo uno o più codici creati dalla cultura degli esseri umani che quella grotta frequentarono e sulle cui pareti dipinsero e lasciarono impronte, come quelle assai famose delle piccole mani sovrapposte. Quegli antenati salentini erano immersi in una cultura tribale sedentaria, basata sull’utilizzo delle tecniche agricole e di allevamento.
L’avvenuta transizione dell’Homo sapiens da semplice mammifero di grossa taglia a predatore vagante sul territorio stava conoscendo una nuova, decisiva evoluzione. Il Neolitico è un complicato puzzle della (pre)storia, perché, come nei periodi precedenti, non abbiamo testimonianze scritte. La scrittura, allo stato della ricerca, si può documentare a partire dal 3400 a.C., un’epoca molto successiva a quella della grotta dei Cervi. Capire come vivessero i nostri antenati nel momento decisivo del passaggio dalle culture nomadi alle culture stanziali è importantissimo per una riflessione matura sulla condizione della nostra specie. L’individualismo moderno è una religione sterile: la nostra specie ha trasformato il pianeta manipolandolo in profondità, e questo corso ha preso avvio proprio dalla scelta stanziale e rurale dell’uomo del Neolitico. Abbiamo la fortuna di disporre di un territorio che spalanca queste voragini temporali e, a certe condizioni, è in grado di proporci esperienze straordinarie. Aprire completamente questo patrimonio al mondo è impossibile: la grotta dei Cervi è fragile, fragilissima, e deve innanzitutto essere custodita e studiata nelle migliori condizioni possibili.
Una convergenza di saperi diversi è necessaria per poter metabolizzare con efficacia gli importanti risultati già raggiunti nello studio dei reperti, nelle datazioni e nell’interpretazione sacrale e cultuale della grotta. In particolare si dovrebbe pensare al Neolitico salentino come a un campo importante di investigazione per le scienze sociali, che hanno la chance di misurarsi non solo con il presente delle interazioni, ma, interagendo con gli archeologi, con l’ambiente che ha generato la nostra epoca. In altri grandi siti della preistoria mediterranea (in Francia e in Spagna) dove la frequentazione turistica è impossibile per gli stessi motivi di Badisco, si è provveduto a realizzare visite virtuali che riscuotono molto successo, unite alle tecniche che gli anglosassoni chiamano “placetelling”, cioè il racconto del territorio. È un’esperienza da imitare, perché i cittadini richiedono costantemente di poter vivere esperienze personali dirette nel patrimonio culturale e il digitale le facilita. Esistono già realizzazioni multimediali intraprese dalla Sovrintendenza e dal Siba di Unisalento, ed esse andrebbero ultimate e aggiornate. Il Salento è un territorio benedetto, probabilmente da Dio ma certamente dalla storia. Molte genti diverse sono passate di qui, per la posizione strategica di queste terre tra mari e per le risorse che derivano, in prima istanza, dalle scelte dell’uomo del Neolitico. È una ricchezza enorme, ma delicata. Ci dice che, trattando bene questa terra e dedicandoci al suo studio e alla sua comprensione, noi apriamo in realtà un nuovo cammino di sviluppo. Una nuova via di fuga dall’accozzaglia di nuove imprese di breve momento che stanno accarezzando il lato immediatamente vendibile di una terra che merita più coraggio intellettuale e più rispetto, e il cui patrimonio artistico-culturale è talmente ampio da necessitare dell’attenzione della comunità scientifica internazionale. Dopo i marchi salentini di ispirazione naturale (lu mare…) e il beneaugurante Salento d’amare di qualche stagione politica fa, sarebbe saggio pensare a questo nuovo messaggio: il Salento fa sul serio con l’arte e con la cultura.

 
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