La musica di casa nostra oltre il folklore

La musica di casa nostra oltre il folklore
di Luca BANDIRALI
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Domenica 18 Giugno 2017, 19:38
Se volessimo oggi spiegare a un marziano o a un musicologo ortodosso, ossia le forme di vita più distanti dalla produzione musicale contemporanea, che cosa si sta facendo di bello e di nuovo sul nostro pianeta, potremmo (senza temere alcuna accusa di campanilismo) far ascoltare loro due album salentini. Sono gli ultimi lavori di Populous e Gabriele Poso, due artisti di fama mondiale che fanno base a Lecce. Il semplice ascolto della loro musica ci fa comprendere cosa potrebbe essere davvero una “capitale culturale”: una città fatta di relazioni materiali e immateriali capaci di creare un tessuto attrattivo di esperienze e culture che nascono qui o altrove ma fondamentalmente viaggiano, come le persone.

Il nuovo album di Populous si chiama “Azulejos”, lo pubblica una label italiana solitamente orientata al rock (La Tempesta) ed è una splendida silloge di brevi composizioni di matrice elettronica, meditative e solari, a battuta medio-bassa, originate da un’immersione nella musica di Lisbona. Lo scultore di suoni di Lecce è in giro dall’inizio del secolo e ha capito prima di molti altri che contemporaneità significa simultaneità. Fare musica del presente significa saper convocare tutto il possibile in uno stesso intervallo di tempo suddiviso in battute.
Nel possibile del brano musicale ci sono le culture più lontane, che prima si andavano a visitare, adesso si campionano: ma anche questo “furto creativo” deve avere una logica, e dunque Populous decide di saccheggiare esclusivamente timbri di dischi portoghesi, angolani o latinoamericani. Il campo sonoro di “Azulejos” non è però sovraccarico: la scrittura è minimale, con frasi ricorsive di grande eleganza formale, gli strumenti sono pochi e l’orchestrazione tende a trattarli come timbri puri. La suggestione culturale è quella della cumbia mondializzata: la musica colombiana di tradizione che attraversa l’oceano, entra nei laptop e diventa uno stato della mente.

Anche quello di Gabriele Poso, nome storico che ha collaborato con i veri Maestri del ritmo (Osunlade su tutti), è un viaggio discografico; ha per destinazione il villaggio globale delle percussioni, si intitola “The Language of Tambores” ed esce in una lussuosa edizione in doppio vinile per l’etichetta inglese Barely Breaking Even. La copertina e l’articolazione del progetto rievocano quei dischi che si trovavano negli anni Settanta nelle collezioni private di una piccola setta di iniziati all’etnomusicologia: album indiani di tabla e sitar, nastri arabi di oud, selezioni che trasportavano l’ascoltatore in un’altra dimensione. Gabriele Poso seleziona tredici tracce percussive e ne aggiunge una di propria produzione, “Cafè de Ochun”, ed è tutto materiale ipnotico: si va dall’Africa di Babatunde Olatunji alla Colombia di Totò La Momposina (la cumbia che troviamo anche in Populous), fino all’isola di Cuba, dove peraltro il polistrumentista salentino si è formato. Come ha scritto fuori dai denti il più importante critico musicale italiano, Christian Zingales, “sono tutte bombe”: e vale la pena ascoltarle in vinile, cambiando per quattro volte lato, come in un rito che ha i suoi gesti.

Poso e Populous ci spiegano cosa vuol dire fare musica oggi, rivolgendosi a un pubblico di nicchia sparso ai quattro angoli della Terra, che compra le loro tracce su Beatport, le ascolta in streaming su Spotify, o le riproduce dai solchi di un LP acquistato nel negozio di fiducia, a Lecce come a Londra. Il loro stile è contemporaneo perché è universale e profondamente radicato nelle tradizioni che sa convocare e soprattutto narrare. La storia di “Azulejos” e di “The Language of Tambores” ci racconta che tante forme espressive ne formano una sola, così come tutti miti sono riconducibili a una sola matrice originaria. Siamo anni luce avanti rispetto all’accanimento folclorico come brand del territorio, quando è ormai evidente che ogni territorio è una banca dati e allo stesso tempo un server, uno degli innumerevoli snodi di quel traffico di informazioni che è l’arte di oggi.
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