La forza della mafia è nelle relazioni con il potere politico

La strage di Capaci (23 maggio 1992)
La strage di Capaci (23 maggio 1992)
di Isaia SALES
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Lunedì 20 Marzo 2017, 17:49
Se il Presidente della Repubblica decide di partecipare alla giornata della memoria delle vittime delle mafie, tenutasi ieri a Locri, ciò vuol dire semplicemente che la partita con le mafie l’Italia non l’ha ancora chiusa. E che neanche si intravede la fine di una questione che riguarda la storia d’Italia nel suo complesso, non riducibile nella maniera più assoluta a sola storia criminale né tantomeno a sola storia meridionale. A due secoli dal loro prima manifestarsi le mafie italiane non sono state ancora sconfitte né radicalmente ridimensionate. Si dimostrano fenomeni resistentissimi. In uno dei Paesi più sviluppati al mondo continuano a prosperare, a fare affari, a condizionare la vita di milioni di persone organizzazioni criminali nate in altra epoca e in altri contesti storici ma che hanno palesato una straordinaria capacità di adattamento ai tempi nuovi e al trasformarsi dei regimi politici, della società e dell’economia.

Quando Mattarella afferma che “la mafia è ancora forte e presente” vuol dire che condivide pienamente questa posizione. Anche se sarebbe assurdo non considerare i grandi passi in avanti fatti negli ultimi anni. Ma questi enormi passi in avanti non sono sufficienti a farci prevedere una fine rapida, nel giro cioè di una generazione, di questo particolarissimo fenomeno. La difficoltà di affrontare il tema del successo storico delle mafie in Italia deriva dal fatto che esse sono sottoposte a due diverse mistificazioni: la prima ha a che vedere con l’idea di invincibilità dovuta a una forza militare notevole e a un altrettanto notevole consenso popolare; la seconda mistificazione ha che fare con l’idea che la storia delle mafie sia nettamente separata dalle vicende fondamentali che hanno caratterizzato il formarsi della nazione italiana, quasi come storia a parte, come “altra” storia, che si affianca a quella ufficiale e non si mischia mai con essa. Ma il successo plurisecolare delle mafie in Italia non lo si può spiegare solo con la violenza che esse esercitano sui territori che controllano.
È questa, infatti, una ipotesi che non regge storicamente. I pirati e i briganti erano molto più organizzati sul piano militare dei mafiosi. Eppure sono finiti. I pirati avevano a disposizione navi attrezzate con cannoni ed erano armati fino ai denti. I briganti erano organizzati come eserciti regolari e affrontavano i militari italiani in scontri armati, in vere e proprie battaglie campali. No, le mafie non sono eserciti che occupano un territorio con le armi, anche se hanno a loro disposizione migliaia di affiliati che le sanno ben usare. Sicuramente la forza militare delle mafie non è causa preponderante del loro successo plurisecolare. E allora, qual è la spiegazione della loro lunga durata? Forse il consenso popolare di cui godono? Neanche questa spiegazione regge. I briganti, ad esempio, hanno goduto di un consenso popolare di gran lunga più vasto di quello dei mafiosi, di cui sono ancora oggi testimonianza canzoni, aneddoti, racconti, favole, eppure sono finiti.

Il mafioso è il superamento storico del bandito, del brigante e del pirata. Egli ha successo permanente perché si relaziona con parte del potere costituito e non si contrappone ad esso, sia sul piano politico, sia su quello economico che su quello sociale. Questa la spiegazione convincente. Quella mafiosa non è violenza di contrapposizione o di scontro con lo Stato, non è violenza antistatuale e antisistema. Nessun potere extra-istituzionale può vivere e sopravvivere in contrapposizione con quello statuale. Se le mafie, quindi, durano da due secoli, ciò vuol dire che esse non hanno rappresentato un potere alternativo e contrapposto a quello ufficiale, ma semplicemente un potere relazionato con esso. Queste relazioni sono state diverse nel tempo, si sono allentate o rafforzate a seconda del contesto, delle circostanze, dei rapporti di forza, del grado di consenso sociale riscosso, ma sicuramente sono interne alla storia dei poteri in Italia. Tutto qui.

La storia delle mafie, dunque, è nei fatti storia dei rapporti che parte della società italiana (e non solo meridionale) ha stabilito, nel tempo, con i fenomeni criminali e viceversa. La forza delle mafie sta nelle relazioni con una parte di coloro che avrebbero dovuto combatterle. Senza queste relazioni, senza questi rapporti le mafie non sarebbero tali, non sarebbero durate tanto a lungo, non peserebbero come un macigno sul passato, sul presente e sul futuro dell’Italia. Più che la violenza, più del consenso popolare, le mafie debbono la loro forza alle relazioni. La loro, dunque, si può definire “violenza relazionale”.

Confrontando i delitti tra Italia e l’Europa la differenza consiste proprio in questo: che in Sicilia e nelle altre regioni a presenza mafiosa il crimine si iscrive dentro le strategie dei poteri costituiti, in altre parti risponde quasi sempre solo a un obiettivo specificamente delinquenziale. Le mafie sono sistemi di potere che si mischiano, si confondono, si intrecciano con altri poteri, siano essi politici, economici o di ogni altro tipo. E Max Weber ci ha insegnato che un potere è tale se viene legittimato da chi il potere lo esercita sul piano istituzionale.

Indubbiamente oggi la ricchezza accumulata con il controllo del traffico mondiale delle droghe sta spingendo le mafie verso una nuova tappa del loro sistema relazionale. Dal 1993 nessun delitto o attentato si è consumato nei confronti di magistrati, di politici nazionali e di esponenti di rilievo delle forze dell’ordine. Le relazioni con il potere politico sembrano sì rallentarsi a livello nazionale ma si rafforzano a livello locale. E si consolidano i rapporti con alcuni settori della massoneria. Un fenomeno cioè a più bassa intensità di violenza ma con una più forte integrazione con il tessuto economico tramite le influenze politiche e sociali. Se le mafie hanno perso consenso in ampi strati della società, lo hanno invece consolidato in settori economici importanti.
In conclusione, il successo delle mafie oggi meno che mai lo si deve rintracciare nella società meridionale e nazionale intesa in senso ampio e sempre di più in quei settori nei quali le armi del successo sono rappresentate dalle relazioni privilegiate, dalla corruzione e dal riciclaggio.
 
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