Quei dialetti che valgono oro. Purché siano ponti e non muri

Quei dialetti che valgono oro. Purché siano ponti e non muri
di Rosario COLUCCIA
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Domenica 19 Marzo 2017, 17:30 - Ultimo aggiornamento: 17:34
Di mestiere faccio il linguista. Sono affascinato dalla nostra bellissima lingua, quella che Thomas Mann, nel romanzo «Le confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull», riteneva fosse parlata dagli angeli del cielo. E nello stesso tempo è affascinante per me la convivenza di lingua e dialetto che caratterizza la nostra storia, fino ai nostri giorni. Lingua e dialetti non sono alternativi, coesistono benissimo. Camilleri ha detto più volte (e dimostrato con i suoi romanzi) che i dialetti possono diventare la forza della lingua, vivificandola e donandole sapore. A condizione di saperla usare in modo adeguato, non dobbiamo rifugiarci nei dialetti perché non conosciamo bene l’italiano. Dobbiamo essere plurilingui (lingua e dialetto, e anche le lingue straniere), non accontentiamoci della povertà linguistica.

Ogni località ha il suo dialetto, che differisce per particolarità più o meno marcate rispetto a quello delle località vicine: per intonazione, per pronunzia, per lessico. Se le località sono vicine i parlanti si capiscono reciprocamente, pur se riconoscono le differenze e le caratteristiche peculiari di un dialetto rispetto ad un altro; l’intercomprensione diminuisce via via che aumenta la distanza tra una località e l’altra. Fino al punto che gli abitanti di regioni molto lontane non si capiscono tra di loro se parlano ognuno nel proprio dialetto, pur appartenendo tutti al medesimo stato unitario, l’Italia. Non sappiamo se sia vero (ma è verosimile) l’aneddoto legato alla conquista della Sicilia da parte dei Mille garibaldini: quei soldati settentrionali che si esprimevano in un dialetto sconosciuto erano «li francisi» per i contadini siciliani.

A volte le differenze dialettali sono il pretesto per dare vita a forme di antagonismo o di concorrenza. Molti conoscono la storiella dei due cani, uno barese e uno leccese, che si contendono il medesimo osso. Il primo cane dice «sono di Bari» spalancando la bocca per pronunziare la «a» secondo la fonetica barese e così perde l’osso; il secondo pronunzia «sono di Lecce» a denti strettissimi, conservando tra i denti il prezioso bottino. Insomma. Le due città principali della Puglia sono in concorrenza anche sul piano linguistico, non solo in campo calcistico.

Talora capita di ascoltare affermazioni perentorie del tipo: «il napoletano è una lingua, non un dialetto». Lo stesso sentiamo dire anche del veneziano, del romanesco, del siciliano, ecc. Si tratta di sciocchezze, lingua e dialetto sono diversi e assolvono a funzioni differenti. La prima serve a comunicare, per parlato e per iscritto, nelle più diverse situazioni della vita e nell’intero territorio nazionale, il secondo è confidenziale, intimo, familiare e si usa in ambiti più ristretti. Nessuno immaginerebbe di presentare in dialetto il proprio curriculum vitae, di esprimersi in dialetto in un colloquio di lavoro, di rispondere in dialetto a un’interrogazione scolastica, ecc. Bisogna intendersi. Etichettare come dialetto un idioma non rappresenta una sottovalutazione né costituisce un’offesa. Il dialetto non richiama valori negativi né ha un significato deteriore, semplicemente occupa altri spazi rispetto a quelli propri della lingua.

A volte, per ignoranza o in malafede, i piani si confondono. È recente (settembre 2016) l’approvazione di una legge da parte del Consiglio Regionale della Lombardia che si occupa di «materia culturale» e ha come titolo IV la «Salvaguardia della lingua lombarda». La questione è stata discussa in un «Tema del mese» dell’Accademia della Crusca. Ogni mese l’Accademia apre nel suo sito la discussione intorno a un tema di particolare interesse, lo commenta, accoglie i pareri dei lettori. L’Accademico Paolo D’Achille in proposito ha osservato: «pare molto opportuno (...) che la Regione Lombardia punti a tutelare e a diffondere –  anche attraverso la scuola – il ricchissimo patrimonio dialettale lombardo, cercando di preservarne la conoscenza, almeno passiva, presso i giovani. Desta però preoccupazione il fatto che nella Legge regionale si parli di «salvaguardia della lingua lombarda», come per contrapporre la «lingua lombarda» alla lingua italiana e far così assumere implicitamente all’iniziativa i connotati di una rivendicazione linguistica, quasi che i dialetti lombardi costituissero, nel loro insieme, una lingua minoritaria da difendere perché oppressa da una politica linguistica centralista che intende imporre l’italiano a chi non lo parla. La realtà è tutt’altra».

Le cose non succedono a caso, all’iniziativa della Lombardia si affianca quella di un’altra regione del Nord. Ai primi di dicembre il Consiglio regionale del Veneto ha approvato la legge che riconosce i dialetti veneti come «minoranza nazionale». Non è così. Abbiamo visto la scorsa settimana che le minoranze linguistiche sono altra cosa, si riferiscono a gruppi di cittadini che, oltre alla lingua nazionale ed eventualmente a uno o più dialetti italiani, conoscono e usano una lingua straniera parlata nella comunità d’origine (tedesco in Alto Adige, grico in Salento, ecc.). In base alla recente legge della Regione Veneto, associazioni selezionate dalla giunta Zaia potranno iscriversi all’«Albo della minoranza» e godere così dei diritti riconosciuti dalla legge. Ogni borgo, anche piccolissimo, magari lo farà. Non mancano già episodi singolari. Paolo Tonin, sindaco leghista di Campo San Martino, “traduce” in veneto gli atti comunali. L’Ordine del giorno di un consiglio comunale recita così: «Elenco degli oggetti da trattare-Lista dee robe da discutare»; «Lettura e approvazione verbali della seduta-Letura e approvasion verbai dea seduta»; «Variazione al bilancio-Variasion al biancio»; «Interpellanze-Interpeanse». Dice il sindaco: «Noi prepariamo i documenti in italiano e poi il bibliotecario li converte in veneto. Il via libera finale spetta a me, che intervengo per tradurre i termini più difficili. Siamo orgogliosi di tutelare le nostre radici, dopotutto la Repubblica di Venezia ha 1300 anni di storia e ha insegnato molto a quella italiana in termini di democrazia». Lorenzo Tomasin, che insegna a Losanna, ne ha scritto sul «Corriere del Veneto», spiegando efficacemente perché lingua e dialetto sono cose diverse.

Il Presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, ha sottolineato i rischi collegati a una esaltazione impropria degli idiomi locali per un verso e dell’inglese come lingua del commercio, necessaria per esportare all’estero i nostri prodotti per un altro verso (sono due facce della stessa medaglia, testimoniano lo scarso interesse per un possesso adeguato dell’italiano da parte degli italiani). E ha chiaramente indicato la priorità: «una salda formazione culturale, su cui si innesta un sano plurilinguismo, comincia proprio dal possesso e dall’apprezzamento dell’italiano». Senza il quale, diciamolo esplicitamente, non può realizzarsi neppure il progresso economico. Cittadini che usano maldestramente la propria lingua ostacolano e rallentano lo sviluppo dell’economia, non c’è sviluppo economico senza progresso culturale.

Certo, ogni tanto c’è qualche dialetto che si sente poco valorizzato e vuole diventare lingua. Il timore di perdere la propria identità fa sentire come imposizione un modello (l’italiano), giudicato lontano dalla propria cultura. Ma credo che nelle iniziative di Lombardia e Veneto (due regioni amministrate dalla Lega) ci sia anche altro. Esaltando le varietà locali fino al punto di insegnarle a scuola di fatto si innalzano muri, meno vistosi rispetto a quelli che in questi mesi spuntano in tante parti del mondo ma non meno efficaci. Chi potrebbe insegnare il bergamasco in una scuola di Bergamo o il padovano in una scuola di Padova se non un professore che sia nato in quelle località? Potrebbero farlo cittadini nati altrove? Non è questa una forma di isolamento, meno sbandierata ma altrettanto pericolosa? L’hanno detto in tanti: la questione della lingua è questione politica.
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