I dubbi che i numeri della legge finanziaria non sciolgono

di Oscar GIANNINO
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Giovedì 29 Settembre 2016, 11:03
Buona regola è cercare di distinguere i fatti dalle opinioni. Vediamo allora di separare le opinioni da ciò che è o appare un fatto, dai numeri anticipati della nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza in vista della prossima legge finanziaria.
I fatti sono questi. Primo: per l’ennesima volta – capita da decenni – le previsioni governative di crescita del PIL e di miglioramento della finanza pubblica erano sopravvalutate. Secondo: ancora una volta, le nuove previsioni governative su PIL e la finanza pubblica sono più ottimistiche del consenso medio degli osservatori domestici e internazionali. Terzo: questo ottimismo comporta effetti che evidentemente al governo non dispiacciono. Quarto: ma danno ragione alla Ue che ne diffida. Quinto: dunque sono la base di nuove richieste italiane a Bruxelles. Sesto: intanto c’è una grande novità, il governo smette di ripetere il mantra “nessun accordo preferenziale coi sindacati e basta concertazione”, e chiude invece proprio col sindacato l’accordo complessivo sulla previdenza che verrà varato in finanziaria. 

Dopo la stasi congiunturale del PIL nel secondo trimestre 2016 e molti indicatori – consumi, manifattura – che continuano a deludere, assumere un +0,8% di crescita nel 2016 e +1% nel 2017 ha due effetti. Significa contenere sulla carta la previsione del deficit di quest’anno entro il 2,4-2,5% del PIL, mentre lo stesso DEF della primavera scorsa ammetteva che a questi minori tassi di crescita si rischia di chiudere l’anno invece sul 2,7-2,9%. Tuttavia, è proprio questo persistente ottimismo il discostamento ciò che potrebbe aggiungere munizioni alla richiesta in Europa di concederci un deficit 2018 che non solo si alza dall’1,8% contrattato al 2% del nuovo DEF, e nemmeno solo al 2,4% se la Commissione autorizza spese fuori dal patto per migranti, sicurezza e terremoto. Ma ancora più alto, se la crescita e le entrate saranno più deboli di quanto prevede oggi il governo. 

Chiariamo un punto: la diffidenza europea non si basa sul fatto che cresciamo meno del previsto, ma sul fatto che il pilastro su cui si è poggiato l’anno scorso il riconoscimento dello spostamento al 2018 del pareggio strutturale del bilancio italiano era che da quest’anno il debito pubblico scendesse. Invece continuerà a salire. E con ogni probabilità, anche se il governo dice il contrario, avverrà con queste premesse anche nel 2017: perché a crescita così asfittica e deficit superiore al 2% ci manca la crescita nominale – leggi inflazione – perché il debito possa scendere rispetto al denominatore. Ergo, questa nota di aggiornamento al DEF sembra proprio la base di ulteriori slittamenti in avanti, oltre il 2020, del pareggio strutturale di bilancio al netto del ciclo.

Veniamo alle opinioni. Non è un mistero che nel fissare il deficit al 2% per il 2017 più uno 0,4% se Bruxelles ce lo concederà, ha vinto la prudenza di Padoan su Renzi che voleva schiacciare di più il piede. Il motivo è evidente, è il referendum del 4 dicembre. Su cui Renzi si gioca tutto. Nasce anche di qui l’improvvisa aspra polemica messa in campo nelle ultime due settimane dal premier italiano contro Merkel e Hollande. 
Infatti, neanche il 3% di deficit basterebbe, per soddisfare tutte le promesse che da 6 mesi a questa parte il governo ha fatto scrivere ai giornali come in arrivo nella prossima finanziaria. Di fatto, al momento – il testo del DEF non ce l’abbiamo ancora – sembra che il premier si riservi di mantenere questo schema più prudente nella finanziaria che sarà pronta il 20 ottobre. Per poi riservarsi, a seconda dei sondaggi sul referendum, magari emendamenti “espansivi” a pochi giorni dall’appuntamento decisivo con le urne. C’è chi ha scritto che potrebbe anche anticipare al 2017 l’abbassamento di uno o due punti dell’aliquota IRPEF al 38% che scatta oltre i 28mila euro di reddito lordo. Vedremo.

Di certo non è dai tagli alla spesa pubblica, che possiamo aspettarci spazi aggiuntivi per finanziare non in deficit tutte le promesse. Che ovviamente si sommano al punto di PIL che deve andare a copertura del mancato scatto di aumenti di IVA e accise (deciso da questo governo, non dai predecessori come spesso erroneamente ripetuto). Al massimo ci sarà la riapertura dell’emersione volontaria di capitali detenuti all’estero e ignoti al fisco, che tuttavia produce entrate una tantum non contabilizzabili a copertura di maggiori uscite permanenti. E inoltre, per recuperare davvero cifre considerevoli, bisognerebbe indurre alla convenienza chi non ha usato la prima voluntary: cioè rendere meno elevato il rischio di sanzioni penali, non proprio una scelta equa e popolare.

Le imprese si aspettano molto. Non solo l’abbassamento dal 27,5% al 24% dell’aliquota legale IRES: l’aumento dell’ACE; l’estensione dell’IRI per il cumulo di reddito d’impresa e personale per i piccoli imprenditori; l’estensione del credito fiscale agli investimenti in ricerca e sviluppo; la conferma del superammortamento al 140% degli investimenti, che dovrebbe poi salire al 250% per quelli riservati alla tecnologia avanzata del progetto Manifattura 4.0 lanciato dal ministro Calenda e presentato da Renzi a Milano. Il solo Industria 4.0 promette 13,3 miliardi di incentivi in 3 anni, ma se in finanziaria c’è già tutto questo significa impegnarne già oltre 8 per il 2017. 

Dovrebbe invece scomparire l’ulteriore decalage al 20% della decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato prevista invece fino a pochi mesi fa per il 2017, visto che i dati del mercato del lavoro mostrano che l’effetto traino della massiccia agevolazione è finito da tempo, lasciandoci all’interrogativo se valesse la pena puntare un punto di PIL di risorse su questa sola partita, per ottenere una modifica così non sostanziale della quota di contratti a tempo determinato sul totale degli occupati (vedi tra l’altro esplosione dei voucher). Ma si dovrebbe invece aggiungere un fortissimo potenziamento della decontribuzione al salario di merito per incentivare la produttività attraverso contratti aziendali: oggi la tassazione agevolata al 10% si applica a chi guadagna meno di 50mila euro lordi l’anno e sui premi fino a 2mila euro, la promessa è di comprendere invece i redditi fino a 80mila euro lordi e i premi fino a 5 mila euro. 

Anche ai lavoratori autonomi è stato promesso finalmente un intervento di sgravio permanente: invece di far scattare la solita aliquota automatica contributiva al 33% che anche per il 2017 era prevista come già capita da 3 anni a questa parte, per le partite IVA non iscritte alla gestione separata INPS l’aliquota dovrebbe scendere dall’attuale 27% al 25%. Tutte queste voci sommate, se le prendiamo sul serio, fanno oltre un punto di PIl di risorse destinate a impresa, produttività e investimenti. Ma finché non abbiamo la legge finanziaria, è anche possibile immaginare che magari sarà previsto tutto o quasi, ma con poste di spesa molto diverse da quelle che le imprese si attendono.

Rispetto a tutto ciò, il governo ha intanto chiuso ieri un solo pacchetto: quello previdenziale, trattando direttamente coi sindacati, con i quali ha firmato un vero e proprio protocollo. Fine dell’era in cui si inneggiava al modello-Marchionne e alla fine della concertazione. L’accordo è di 2 miliardi di risorse ogni anno per 3 anni, i sindacati ne chiedevano due e mezzo. Ma anche qui bisogna vedere bene i dettagli: prendendo alla lettera i punti dell’accordo 2 miliardi non bastano affatto. C’è l’anticipo di pensione, che scassa in maniera ormai strutturale i tetti previsti dalla legge Fornero e consentirà volontariamente di lasciare il lavoro a chi ha 63 anni, cioè 3 anni e 7 mesi prima del tetto vigente. Vedremo davvero quanto sarà penalizzato per chi vi farà ricorso l’assegno ricevuto: se Renzi non vuole un flop (come avvenuto per il “TFR in busta”) la penalizzazione deve essere contenutissima e significa più deficit per l’INPS. Vedremo a quali categorie agevolate lo Stato assicurerà da subito l’assegno pieno senza penalizzazione (più deficit). In un paese che si è inventato sette successive misure per esodati che esodati non erano, bisogna spettarsi una definizione “generosa”. C’è poi l’anticipo a carico delle imprese, se sono queste a voler accelerare ristrutturazioni. C’è quello per i lavoratori precoci e per i lavori usuranti. L’aumento della 14esima ai pensionati non più fino a 750 euro lordi al mese ma fino a 1000, includendovi dunque un milione di nuovi soggetti in più. C’è l’aumento per i pensionati oltre i 74 anni della no tax area, fino agli 8125 euro dei lavoratori dipendenti. C’è la ricongiunzione gratuita per chi ha versato contributi a enti previdenziali diversi. C’è la detassazione per chi attinge a un fondo previdenziale integrativo a cui ha versato i contributi, nel mentre non ha ancora maturato i requisiti per la pensione. 

Che tutto questo si faccia con 2 miliardi, il dubbio non solo è lecito. È obbligatorio. È appena il caso di spiegare perché ci si preoccupi tanto di agevolare il pensionamento di chi un lavoro ce l’ha, rispetto ai giovani che il lavoro non ce l’hanno o l’hanno discontinuo. Come ci ricorda Bankitalia, fatto 100 lo stock di ricchezza di 15 anni fa, quello degli over 65enni in Italia è salito di 60 punti, quello degli over 35 è sceso di 60 punti. Ma l’età media degli italiani è di 45 anni in questo 2016, e a votare vanno più gli anziani che i giovani. E non dimentichiamo che con i sindacati resta aperta la partita del rinnovo dei contratti pubblici bloccati da anni, e vedremo alla fine se dai 300 milioni inizialmente appostati il governo si ferma a quota 2 o 3 miliardi.

Solo i numeri veri della finanziaria ci diranno tra un mese quanti di questi dubbi sono fondati. Ma intanto ricordate: il PIL dell’Italia nel 2016 è pari a quello del 2000, cioè siamo tornati indietro di 16 anni. Ma rispetto ad allora la spesa pubblica primaria è salita del 20% e le entrate pubbliche del 10%. Con questi bei risultati che vediamo intorno a noi.
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