La strada di uscita dal neoliberismo

di Guglielmo FORGES DAVANZATI
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Martedì 26 Luglio 2016, 19:10
È sempre più diffusa la convinzione che il cosiddetto neoliberismo, a seguito dello scoppio della crisi del 2007, abbia fallito e debba essere superato. Innanzitutto, perché i modelli economici sui quali si fonda sono caratterizzati da totale scollamento rispetto alla realtà nella quale viviamo.
<CP9.3>In secondo luogo, perché propone prescrizioni di politica economica che non hanno altro esito se non accentuare la recessione. Le teorie neoliberiste, si può aggiungere, si sono rivelate del tutto fallimentari anche per la loro incapacità di prevedere la crisi. E tuttavia restano egemoni sia nella ricerca scientifica sia nel campo della politica economica.
Un significativo contributo alla critica delle teorie e delle politiche economiche neoliberiste viene ora proposto nel libro curato da Filippo Barbera, Joselle Dagnes e dai professori dell’Università del Salento Angelo Salento e Ferdinando Spina (<CF2>Il capitale quotidiano. Un manifesto per l’economia fondamentale,</CF> Donzelli 2016). Il volume è parte di un importante progetto di ricerca europeo avviato dal Center for Research on Socio-Cultural Change dell’Università di Manchester, certificando il fatto che nell’Università del Salento si produce elevata qualità della ricerca in un contesto di forte internazionalizzazione.
La critica formulata dagli autori viene impostata con massimo rigore logico, avvalendosi di solidi argomenti teorici e di ampia evidenza empirica. Essi si soffermano principalmente, nella loro pars destruens, sugli effetti perversi dei processi di finanziarizzazione e sull’interazione perversa che sussiste fra questi ultimi e la crescente precarizzazione del lavoro, con particolare riferimento al caso italiano. Essi evidenziano, contro una vulgata diffusa, che la finanziarizzazione - intesa come crescente propensione delle imprese a fare profitti attraverso scambi nei mercati finanziari in una prospettiva di brevissimo periodo (la cosiddetta economia di carta) - è ormai parte costituiva del nuovo assetto del capitalismo italiano. La finanziarizzazione è associata alla riduzione degli investimenti produttivi (nella cosiddetta economia reale), dunque a crescente disoccupazione e precarizzazione e all’aumento delle diseguaglianze distributive. E si rende possibile perché i mercati finanziari sono pressoché completamente deregolamentati. La base teorica, di matrice liberista, che legittima questa scelta la si ritrova nella c.d. teoria dei mercati efficienti. Una teoria che si basa sull’ipotesi secondo la quale gli agenti economici, anche quelli che operano nei mercati finanziari, sono perfettamente razionali e perfettamente informati. Di conseguenza, effettuano le loro scelte di acquisto/vendita di titoli sulla base della profittabilità attesa degli investimenti delle imprese quotate nei mercati finanziari. In tal senso, i mercati finanziari selezionano le imprese più efficienti e, conseguentemente, contribuiscono a generare crescita economica.
È del tutto evidente che si tratta di un’impostazione teorica basata su assunzioni eroiche. I mercati finanziari non sono popolati da agenti perfettamente razionali e perfettamente informati. Sono semmai “luoghi” nei quali poche istituzioni finanziarie internazionali, in regime oligopolistico, decidono quali e quanti titoli vendere, e quando farlo. E sono seguite da una scia di imitatori, per lo più piccoli risparmiatori, che, per così dire, attribuiscono una patente di razionalità a queste scelte. Gli esiti sono sostanzialmente due: 1. contro la visione dominante, la speculazione genera instabilità e tende a produrre recessione; 2. i percettori di rendite finanziarie, oltre ad acquisire elevati e crescenti guadagni attraverso operazioni di acquisto/vendita di titoli, acquisiscono anche crescente potere politico (come peraltro gli autori evidenziano, facendo riferimento in particolare al caso italiano).
La <CF2>pars construens</CF> del libro riguarda la cosiddetta economia fondamentale. Gli autori la definiscono “l’infrastruttura della vita quotidiana”, cioè ciò che ci si aspetterebbe come ovvio dall’attività produttiva: che questa sia orientata innanzitutto alla produzione di beni e servizi essenziali (cibo, istruzione, sanità), che sia finalizzata al benessere dei consumatori, che fornisca, come recita il titolo del volume, il nostro capitale quotidiano. Si tratta di una prospettiva condivisibile e del tutto ragionevole. È praticabile?
Ad avviso di chi scrive, lo è molto difficilmente, ma non per questo non vale la pena perseguirla. È difficilmente praticabile, almeno in un orizzonte di breve termine, per una fondamentale ragione della quale gli stessi autori sono ben consapevoli. L’attuale fase storica è caratterizzata da quella che il sociologo Luciano Gallino definì la “lotta di classe dall’alto”, ovvero un radicale ribaltamento dei rapporti di forza a danno del Lavoro e a beneficio del Capitale (e della rendita finanziaria). La prospettiva dell’economia fondamentale si scontra inevitabilmente con la resistenza delle nuove classi agiate a modificare l’assetto socio-economico che le rende tali. Ma, a fronte di questa constatazione, occorre riconoscere - come gli autori di questo libro invitano a fare - che non solo già esistono “pratiche sociali che … rivendicano spazi di vita economica sottratti alla dinamica della massimizzazione del profitto” (si pensi ai fenomeni di ritorno alla terra, alle reti dell’economia solidale, al commercio equo), ma anche che l’economia fondamentale è oggi parte consistente (e crescente) dei sistemi economici, radicata soprattutto in contesti locali. Vi è di più. Occorre immaginare, proporre e perseguire nuove forme di regolazione che pongano al centro quella che nel libro viene definita la “licenza sociale”: l’attività economica, pubblica e privata, deve ritenersi legittima soltanto se opera a vantaggio dell’intera società. Qualcosa di più delle “forme molecolari di autodifesa”, che di fatto già esistono.
La proposta potrebbe essere letta come irrealizzabile e utopistica. Va tuttavia riconosciuto agli autori la capacità di renderla estremamente persuasiva e di non difficile implementazione. E, più in generale, va riconosciuto agli autori il merito di aver prodotto una ricerca di ampio respiro, di impianto multidisciplinare, che può essere letta e agevolmente compresa anche da non addetti ai lavori. In fondo, l’interminabile crisi che viviamo e l’evidente insostenibilità di questo modello di sviluppo dovrebbero indurre gli analisti sociali a evitare attitudini conformiste, a esercitare il pensiero critico, a diffondere i risultati della loro elaborazione teorica anche al di fuori degli steccati della Torre d’Avorio delle Università.


 
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