La giustizia tra presunzione d’innocenza
e sindrome del complotto

La giustizia tra presunzione d’innocenza e sindrome del complotto
di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 14 Maggio 2017, 18:16 - Ultimo aggiornamento: 22 Maggio, 21:39
L’inchiesta sulle presunte truffe dello sportello antiracket a Lecce, per il delicato ruolo svolto dall’ufficio, la gravità delle accuse contestate e lo spessore dei personaggi coinvolti, ha scosso la città - e non solo - alla vigilia della presentazione delle liste elettorali. Abbiamo letto l’ordinanza, come devono fare i giornalisti, che ha portato agli arresti, agli indagati e alle interdizioni dai pubblici uffici. Ci sono passaggi inquietanti che disvelano un mondo di complicità e connivenze ai limiti dell’inverosimile. Ma siamo solo nella fase delle accuse, accuse tutte da dimostrare nel prosieguo delle indagini e, ove mai si arriverà, in un processo.
Non tocca ai giornalisti e nemmeno ai politici ergersi oggi a giudici e dare patenti, sulla base dell’ordinanza, di condanne o di assoluzioni. Anzi, è sempre utile ricordare, anche qui, la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio che resta il faro della nostra civiltà giuridica. Dall’inchiesta e dalle reazioni scaturite in queste ore, però, possiamo trarre quattro brevi e schematiche riflessioni.
Prima. Chi crede davvero nella cultura garantista non può non apprezzare o il silenzio o i commenti pacati che sono venuti dagli avversari politici dell’assessore comunale al Bilancio Attilio Monosi, coinvolto nell’inchiesta e per il quale la Procura aveva chiesto l’arresto. Anche il candidato sindaco del M5S, movimento che spesso mostra il volto più aggressivo del giustizialismo e alimenta la gogna mediatica degli avversari, si è tenuto lontano da condanne preventive e da giudizi sommari, sottolineando più volte la presunzione di innocenza degli indagati fino alle sentenze definitive. Una bella lezione di civiltà. Politica e giuridica. Perciò, fossimo stati nei panni degli amici e dei sostenitori politici di Monosi avremmo chiuso la questione in poche battute: siamo fiduciosi nel lavoro dei magistrati che alla fine sapranno accertare la verità, siamo altrettanto sicuri - dopo aver parlato con il nostro assessore e verificato che i soldi non dovuti alla ditta Saracino sono tornati nelle casse del Comune - della sua correttezza politica e amministrativa, pertanto gli rinnoviamo la nostra incondizionata fiducia e, dunque, resta candidato nelle nostre liste. Da un lato, il rispetto del lavoro e anche dei tempi della magistratura; dall’altro, il rispetto dell’autonomia e delle decisioni della politica, che non può e non deve farsi imporre le candidature dai magistrati. A ciascuno il suo. Punto e capo.
Seconda. Dopo la diffusione della notizia e dei retroscena dell’inchiesta sull’antiracket uno dei commenti più frequenti, tra i politici e anche tra i non addetti ai lavori, ha riguardato il presunto “cambiamento di vento” in Procura dopo il recente avvicendamento al vertice degli uffici. Come a dire: prima le indagini sulle pubbliche amministrazioni locali procedevano molto a rilento e spesso si avviavano lungo un binario morto, oggi invece sarebbero diventate più celeri. Va detto che questa lettura trova terreno fertile anche per le sortite negli stessi ambienti delle toghe in recenti occasioni, come l’inaugurazione dell’anno giudiziario e l’insediamento del nuovo procuratore capo, quando più voci hanno sottolineato che occorreva indagare di più sulla legalità e sulla trasparenza nella gestione delle pubbliche amministrazioni. Sarà ormai la storia (con gli storici) e non la cronaca (con i giornalisti) a dire se si tratti di un’illazione o se sia stato davvero questo il tratto distintivo della precedente gestione della Procura di Lecce. Di sicuro, nel caso dell’inchiesta sull’antiracket è una forzatura perché le indagini sono cominciate ben quattro anni fa, dunque con la precedente gestione, e sono andate avanti arricchendosi di nuovi filoni nel corso dei mesi. Né può avvalorare la tesi del “cambiamento di vento” la questione della tempistica, in questo caso ritenuta sospetta perché la “bomba” è esplosa alla vigilia della presentazione delle liste elettorali per le Comunali.
Le critiche della politica sulla tempistica, in realtà, sono tra le più frequenti, di tutta la politica - sia chiaro - perché il rispetto dei tempi della magistratura è quasi sempre a senso alterno, dipende cioé dal coinvolgimento o meno della propria parte. Eppure, riesce davvero difficile comprendere quale sia per la politica un “tempo non a orologeria”. Dalle Europee alle Comunali, si susseguono elezioni ogni anno, intervallate spesso da referendum decisivi o da primarie e congressi di partito; ci sono poi le crisi di governo (o rimpasti di giunte locali) con le relative battaglie sulle nomine e per le poltrone; ci sono le scelte dei candidati per le più importanti cariche elettive che cominciano anche quattro o cinque mesi prima dell’appuntamento elettorale. A ben riflettere per la politica non c’è mai un “tempo” in cui è possibile “accettare” senza vittimismi e senza gridare al complotto l’apertura di inchieste o la diffusione di notizie relative alla chiusura delle indagini. E lo diciamo pur consapevoli che, da Mani pulite in poi, non sono mancate forzature nelle indagini, protagonismi dei magistrati, e anche demolizioni di carriere con inchieste fondate sul nulla. In Puglia, tra l’altro, ne sappiamo qualcosa.
Terza. In una coraggiosa riflessione su queste colonne, ieri Renato Moro ha affrontato il problema dei cosiddetti professionisti dell’antimafia. Coraggiosa perché è difficilissimo ragionare sull’antimafia, denunciare storture e anche impegni truffaldini, oltre che pentitismi addomesticati, senza rischiare di essere additati come fiancheggiatori dei mafiosi o come accondiscendenti della cultura mafiosa. Eppure è una questione ben nota, denunciata già 30 anni fa dall’indimenticabile Leonardo Sciascia. Negli ultimi anni, in particolare in Sicilia ma non solo, sono emersi casi clamorosi di personaggi ed esponenti dell’antimafia che hanno sfruttato il loro impegno civile per intascare danaro o per costruire fortune e carriere. Anche giornalistiche, letterarie e cinematografiche.
C’è da aggiungere che ciò sta avvenendo anche in fronti meno esposti della lotta alla mafia, come l’associazionismo, il volontariato, le fondazioni, l’ambientalismo. Diciamo che quando l’impegno civile per le cause più nobili diventa una professione e uno strumento quasi esclusivo per ottenere visibilità a buon mercato c’è da stare attenti e da alzare la guardia. Soprattutto, se girano soldi e si ottengono finanziamenti. Tre anni fa, proprio di questi giorni, il nostro giornale organizzò a Lecce una marcia antiracket di fronte all’ennesima intimidazione subìta da un imprenditore. Fu un’iniziativa che nacque spontaneamente, una mobilitazione per dire alla città che non bisognava sottovalutare il problema nascondendo la polvere sotto il tappeto. Non era certo la soluzione del problema, ma semplicemente la manifestazione pubblica di un problema. Bene. Furono coinvolte tutte le associazioni di categoria, con gli imprenditori e i commercianti in apertura del corteo; sfilarono quasi tutti i sindaci del Salento con i gonfaloni dei Comuni. Unico assente lo sportello antiracket di Lecce. Ci fu contestata una sorta di invasione di campo perché “queste cose le dobbiamo fare noi”. Non ci piacque.
Quarta. Lasciamo per un attimo la vicenda dell’inchiesta antiracket per una riflessione più generale. Qualche giorno fa, a proposito della vicenda Boschi-de Bortoli sulle presunte pressioni fatte dall’ex ministro al manager di Unicredit per l’acquisto di Banca Etruria, c’è stata una lucidissima analisi di Umberto Minopoli sul Foglio a proposito del “ritorno di massa nello spazio pubblico delle teorie del complotto” e dell’”immaginario cospirazionista”, meccanismo psicologico che invece di regredire con la modernità viene alimentato nelle democrazie digitali con la dilatazione della comunicazione, delle conoscenze e delle conquiste cognitive. Minopoli cita il sociologo francese Gèrald Bronner per il quale dobbiamo convincerci che “vivere in una democrazia stabile, dove sono garantite libertà e sicurezza, comporta (paradossalmente) mettersi alla ricerca di un modo per apparire vittima di qualcosa”.
Da qui il dubbio, il sospetto, la convinzione che dietro a ogni fatto ci sia sempre un complotto, un disegno, un qualche cosa che è al di sopra di noi e, quasi sempre, contro di noi. Da qui la ricerca di retroscena oscuri anche quando la scena è chiarissima. Non si tratta, beninteso, di un meccanismo psicologico che scatta solo in presenza di inchieste penali o di vicende giudiziarie. Riguarda ormai il nostro modo di essere tutti i giorni, investe quasi meccanicamente le nostre conversazioni a casa o al supermercato che spesso si chiudono con il solito “chissà cosa c’è dietro”. Riguarda il mondo dell’informazione che, nella ricerca spesso ossessiva dell’originalità e della diversità, deve a tutti i costi contrapporre una verità altra rispetto a quella ufficiale. E riguarda ancora di più lo spazio pubblico: basti pensare, per stare al nostro territorio, alle teorie complottistiche sulla xylella, ridicole certo, eppure all’inizio con un seguito ampio e trasversale nella società e nelle stesse élite. Il giorno in cui ci renderemo conto che non tutto è complotto e cospirazione, il giorno in cui ci accorgeremo che la spregiudicata cultura della dietrologia avvelena i pozzi della nostra convivenza, ritroveremo tutti una maggiore serenità nelle relazioni umane complesse e individuali.


 
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