Il destino dell’Italia se torna a vincere l’immobilismo

Il destino dell’Italia se torna a vincere l’immobilismo
di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 23 Aprile 2017, 19:28 - Ultimo aggiornamento: 22 Maggio, 21:40
Capita sempre più spesso, in questi giorni, leggere editoriali e commenti sulla prospettiva ravvicinata di un’Italia ingovernabile. Un’Italia che rischia di precipitare di nuovo nella paralisi della concertazione infinita, in cui trovano brodo di coltura il “massimalismo” e il “particolarismo”, due spinte - solo apparentemente divergenti - che hanno alimentato la tendenza all’immobilismo del cosiddetto “sistema Paese”. E capita sempre più spesso che a denunciare questo scenario, tanto cupo quanto verosimile, siano gli stessi che fino al referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, bocciata a grande maggioranza dagli italiani, si erano spesi per il “no”. È inutile, almeno qui, tornare su quel passaggio e sulle ragioni (e sugli errori) che hanno determinato il rigetto popolare della riforma. È anche inutile, ormai, ricordare la magra figura di chi sosteneva che, bocciata la riforma, sarebbero bastati sei mesi per farne una migliore e più efficace per modernizzare l’assetto politico-istituzionale del Paese. Si mentiva sapendo di mentire.

Oggi è ancora più chiaro di ieri che il vero obiettivo non era la riforma, la sua presunta deriva autoritaria e la difesa della Costituzione più bella del mondo, ma la chiusura di una stagione. Obiettivo politico legittimo, per carità. Solo che chi pensava che rappresentasse la “soluzione del problema” ha completamente (o volutamente) sbagliato analisi. La chiusura di quella fase non solo non ne ha aperta una nuova, ma ha segnato inequivocabilmente un passo all’indietro. Per tutti. Anche per chi coltivava solo lo spirito di rivincite e vendette personali.

Sta di fatto che, oggi, di riforma e di riforme, la parola più abusata nel lessico del ceto politico degli ultimi tre decenni, non parla più nessuno. E non perché all’improvviso ci siamo accorti che il Paese non ne abbia più bisogno. Anzi. Persino l’obiettivo minimo di uniformare la legge elettorale per le due Camere appare ormai proibitivo. Al frenetico e talvolta avventuroso “elogio della fretta” è subentrato il malinconico “elogio della lentezza”, tra rinvii, paralisi, decantazione. Nell’attesa che qualcosa accadrà. Ma quel qualcosa, ragionando a mente fredda, appare sempre più chiaro con il passare dei giorni.

Lo scenario più probabile è che il nostro Paese uscirà dalle elezioni politiche della prossima primavera senza una maggioranza parlamentare omogenea e senza un governo guidato da un premier indicato, anche se solo indirettamente, dagli elettori. Prepariamoci, dunque. Non sarà, certo, un bel vedere ciò che accadrà da qui a un anno tra le sempre più ristrette consorterie partitiche, con accordi sottobanco, scambi poco trasparenti, giochini e ricatti in Parlamento, coalizioni raccogliticce, probabili ricorsi a voti anticipati. Con il ritorno al proporzionale puro, senza alcun correttivo, in presenza di un sistema tripolare con forze quasi equivalenti, avremo un ulteriore trasferimento del potere reale dal voto popolare alle manovre di palazzo. E sia chiaro: nulla a che vedere con quanto accadeva nella cosiddetta prima Repubblica, dove comunque c’erano partiti e corpi intermedi veri, capaci di determinare la volontà nazionale, e un ceto politico più selezionato e più responsabile.

Sarà interessante vedere, allora, la reazione dei tanti che da anni stanno sparando a palle incatenate contro il teatrino della politica, contro la casta dei privilegi, contro le manovre nei palazzi dei professionisti delle corporazioni e della concertazione, e che però si sono sempre opposti a qualsiasi ipotesi di cambiamento nel nome o del “massimalismo” o del “particolarismo”. C’è da scommetterci: saranno i primi a mostrarsi scandalizzati dalla politica politicante, nauseati dallo spettacolo che verosimilmente andrà in onda nei palazzi romani all’indomani delle prossime elezioni. E a gridare all’inciucio in caso di alleanze spurie dettate dall’emergenza e dagli stati di necessità.

Il vero rischio per l’Italia, di cui ci stiamo solo ora rendendo conto, è che il probabile stallo politico e di governo, successivo alle elezioni politiche della prossima primavera, arriverà a qualche mese di distanza dal voto politico nei due maggiori Paesi europei, fondatori con l’Italia del progetto comunitario. La Francia vota oggi (primo turno) e il sette maggio sera (secondo turno) avrà il nuovo Presidente. A meno di clamorosi colpi di scena, la destra anti-europeista e xenofoba si dovrà accontentare, al massimo, di un successo parziale al primo turno. Tra quindici giorni all’Eliseo dovrebbe accomodarsi il giovane emergente Macron, europeista riformista, o il più attempato Fillon, anch’egli europeista convinto. La Germania voterà in autunno, scontata l’affermazione della Merkel o di Schulz, due ferventi europeisti - anche se con sfumature diverse -, mentre la destra xenofoba nemmeno presenterà un candidato per la verticale caduta di consensi. Se saranno questi i responsi, l’Europa potrà contare su un rinsaldato asse franco-tedesco per un serio rilancio delle istituzioni comunitarie, mentre l’Italia sarà alle prese con la formazione di governi debolissimi, temporanei, in balìa dei veti e dei ricatti di forze largamente minoritarie, con un ruolo ancora più marginale sullo scenario continentale.

C’è, purtroppo, chi non solo non è preoccupato, ma esulta di fronte a una prospettiva simile. Governi deboli significano maggiore possibilità di interdire, contrastare, concertare, contrattare e difendere interessi particolari, spesso privilegi consolidati. Significa rinviare, non scegliere, non decidere. In altre parole, significa esaltare l’immobilismo come metodo di governo e assecondare le profonde resistenze alle riforme nel nostro Paese. Sappiamo, del resto, quanto sia diffusa in molti settori e in molti segmenti della società italiana la “retorica del cambiamento”, quella seconda cui tutti continuiamo a dichiararci insoddisfatti di come vanno le cose e invochiamo la necessità di cambiare, ma nessuno è pronto ad ammettere e ad acconsentire che il cambiamento possa e debba cominciare da se stesso, dal suo cortile, dal suo comune, dal suo lavoro, dalla sua scuola e dalla sua università. Una sorta di “nimby” delle riforme che ancora una volta porterà il nostro Paese a perdere treni e a non pagare il debito, materiale e morale, che ha contratto con le nuove generazioni. Se continuiamo così, il destino appare segnato. Almeno stavolta risparmiamoci iniezioni di ottimismo della volontà.
 
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