Il magico spettacolo dei fiocchi bianchi nelle città di mare

di Diego DE SILVA
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Martedì 10 Gennaio 2017, 17:48
Chi vive sul mare ha scarsa confidenza con l’inverno. Sa che un po’ gli tocca, ma non più di tanto: come quei parenti indesiderati che una volta all’anno gli piombano in casa. Ed è tenuto ad ospitare per amor di pace, e ne tollera i difetti contando i giorni che mancano alla loro ripartenza. È singolare, e al tempo stesso buffo, l’atteggiamento che noialtri privilegiati dalla vicinanza del mare maturiamo fin da bambini nei confronti della stagione fredda: l’affrontiamo come fosse un’anomalia, un’intrusione, un’eccezione alla regola.
Di più: diventiamo addirittura increduli, o quantomeno scettici, davanti al protrarsi di un freddo che non passa. Non crediamo al freddo, perché non ci appartiene; e siamo convinti (non semplicemente speranzosi) che il sole tornerà presto, al massimo domani, e ci svestiremo degli abiti pesanti che non siamo abituati a indossare così a lungo. Ecco perché siamo così impreparati al gelo, e due volte stupiti dalla neve. Svegliarci nella città imbiancata c’incanta, perché è diventata improvvisamente antica, ed è invecchiata di notte, alle nostre spalle. Adesso ha un aspetto rassegnato, ma felice. Sonnecchia e sorride. È un impasto di ricordi che sembrano aver trovato coerenza estetica. Ha acquistato nuovi contorni, addolcendosi nella definizione. E anche il mare è altra cosa. Non il film in bianco e nero della famosa canzone, lo scenario depresso che richiama solitudini, abbandoni e desiderio di qualcuno che arrivi per portarti via con sé o farti semplicemente compagnia (sa molto più di naufragio «Il mare d’inverno» di Enrico Ruggeri che «Message in a bottle» di Sting), ma una quinta dalla luce limpida e calda, piena di presenze, di fantasmi innocui che scivolano nell’aria e ti ricordano anni infantili, odori di vicoli e di stanze, volti imprecisi, voci e frammenti di parole di qualcuno che hai perso molto tempo fa. Se ti avvicini per guardarlo, lo vedi non calmo ma arreso. Come non avesse alcun motivo di agitarsi, e quasi si ritirasse al cospetto della neve, partecipando alla conservazione provvisoria di una quiete che come un riflesso d’ordine richiama chiunque rientri in quello scenario a cogliere quell’occasione di bellezza fragilissima e profonda che, per esempio, spinge ogni genitore di figli piccoli a mostrar loro la neve, a insegnargliela. Come se nella neve ci fosse qualcosa da trovare; come una caccia al tesoro che nasconde sorprese ovunque.
La neve puoi stenderla e appallottolarla, lanciarla e frantumarla, distruggerla e ricomporla, darle forma, assaggiarla, inventarla: puoi camminarci, scivolarci, scriverci. Un bambino che fa la scoperta della neve, molto semplicemente, se ne innamora. Ecco perché, una volta che l’ha conosciuta, poi l’aspetta. E gli viene il batticuore quando torna. Ecco perché anche gli adulti, anche quelli più scafati che non si lasciano galvanizzare dalla neve perché crea problemi di circolazione stradale o semplicemente non si ricordano più come si fa ad innamorarsi, quando la neve si posa diventano meno scorbutici, finanche socievoli; e qualche volta si scoprono a parlare di cose di cui solitamente non si occupano, tipo gli altri (perché quando le tensioni si abbassano si comincia a guardare fuori di sé, e ci si accorge che di là del proprio piccolo recinto c’è dell’altro, e perfino di meglio, a cui si può gratuitamente e felicemente interessarsi). E poi ci sono gli entusiasti, che con o senza bambini al seguito si attrezzano ed escono di casa per costruire pupazzi o si ricorrono lanciandosi palle di neve; addirittura quelli che, come qui nel Salento, vanno in slitta sulla spiaggia, e si lanciano da piccoli dislivelli fino a raggiungere la riva, urlando e ridendo come se la vita fosse appena iniziata. Sono quelli (manco a dirlo) che s’innamorano spesso.
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