Vivremmo meglio se tutti insegnassimo la storia

di Antonio ERRICO
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Martedì 25 Ottobre 2016, 17:30
Una superficie liscia sulla quale l’acqua scorre senza lasciare traccia se non un umidore che dopo breve tempo si asciuga. Si ha l’impressione di vivere in un tempo così: un presente assoluto e lineare, senza profondità, senza prospettiva, sospeso, che viene dal niente e va verso il niente. Senza storia, senza memoria. Come se tutto quello che esiste sia stato inventato in quell’istante, come se si dovesse consumare in quello stesso istante. Una condizione trasversale, che vale per tutto, per la conoscenza, per l’esperienza, per i fatti che accadono vicino o lontano, per l’osservazione, per la riflessione, per ogni espressione, per il pensiero in tutte le sue manifestazioni. Si pensa per quello che serve, e basta. Poi si azzera quello che si è pensato, e si ricomincia, per cui la cognizione non si sedimenta, non si stratifica, non si costituisce come eredità di ciascuno e di tutti. Ogni cosa si fa effimera, vaga, inutilizzabile dopo l’uso momentaneo. Pare che sia così anche per l’arte che in molte sue forme non tiene conto dell’universo di cui fa parte e da cui si è sviluppata. 

Si produce una forma e insieme alla forma si innalza un altare al nuovo assoluto, all’assolutamente inedito. Non si fa riferimento, non si riconosce un debito, si disconosce il passato più o meno consapevolmente, più o meno maliziosamente, non si ha il piacere dell’orgoglio e dell’umiltà della citazione.
Solo la scienza, forse, si sottrae a questa eternità dell’estemporaneo, probabilmente perché se non si sottraesse non potrebbe essere scienza. La storia, quella cosa che rappresenta l’esistere degli uomini nel tempo e nello spazio, con le loro fortune e le loro sfortune, con le loro nobiltà e le loro miserie, quella cosa forse ha insegnato poco, sempre. Ma in questo tempo insegna anche meno di quel poco, quasi niente. Se insegnasse, molte scelte in tutti i campi e a tutti i livelli sarebbero diverse. Se insegnasse, sarebbe diversa l’Europa, per esempio. Basterebbe soltanto che insegnasse qualcosa la storia del Novecento, per non andare lontano. Sarebbe diverso il mondo, per esempio.

Si prende il frutto dall’albero e si guarda soltanto il frutto e forse anche, ma distrattamente, il ramo dal quale pende il frutto. Il tronco non interessa, meno che mai interessa la radice, non interessa chi ha preparato il terreno, ha piantato l’albero, lo ha guardato crescere, lo ha protetto dal vento e dal gelo, e prima di piantarlo, di guardarlo crescere, di sorvegliarlo, lo ha sognato. 
Si prende il frutto. Punto. Spesso lo si butta, senza alcun rispetto, dopo averlo soltanto assaporato. Tanto non si conosce il sacrificio che c’è dietro, dentro quel frutto. Così, ancora per esempio, c’è chi assapora il frutto della libertà di pensare, di dire, di fare, e di pensare diversamente da come aveva pensato, di dire altro rispetto a quello che aveva detto, di rifare, chi rivolge lo sguardo alla sua bellezza straordinaria, ma non esprime e non dimostra rispetto nei suoi confronti, non ne testimonia l’apprezzamento, non ne afferma l’indispensabilità, forse perché non conosce il tronco, non sa in che terra affonda la radice, né chi l’ha preparata, guardata crescere, protetta, non sa chi segretamente o manifestamente l’ha sognata, chi la sogna ancora ad occhi aperti, anche pagando a caro prezzo il sogno. 

Gli esempi sarebbero infiniti, relativi ad ogni contesto, circostanza, situazione. Dunque abbiamo bisogno di conoscere quello che è stato, per non ricominciare sempre tutto daccapo, per non improvvisare in continuazione. Abbiamo bisogno di imparare la storia e di qualcuno che la insegni. Soprattutto che la insegni bene. Quello della storia è l’insegnamento più difficile. La storia ha innumerevoli trame, innumerevoli intrecci, una folla sconfinata di personaggi, mutamenti continui, vorticosi, di prospettive, contraddizioni, significati palesi e nascosti. La storia è la materia più difficile. In storia due più due fa sempre tre, cinque, dieci, cento, mille. Quasi mai fa quattro. A volte, quando fa quattro, può darsi che si sia sbagliato il conto. Non esiste una disciplina che si possa insegnare ed apprendere senza insegnare ed apprendere la storia, per il semplice fatto che ogni disciplina è pensata ed elaborata da uomini. Uomini e storia sono sinonimi. 

Quindi la storia dev’essere insegnata da tutti coloro che hanno conoscenza di qualcosa che riguardi gli uomini, e non c’è chi non ne abbia. Dev’essere insegnata in ogni luogo perché non c’è luogo in cui non possa essere insegnata. Un insegnamento continuo, trasversale, diffuso, organico ma anche disorganico, spontaneo. La storia dev’essere insegnata a scuola, certo, in modo intenzionale e sistematico. Ma non basta. Anche un giornale deve insegnare la storia, anche un poeta, un narratore, un politico, un economista, un pittore, un sacerdote, un marinaio, un aviatore. Devono insegnare la storia tutti quelli che non cito perché anche in questo caso l’elenco sarebbe infinito. Ciascuno a suo modo. Lo si potrebbe anche considerare un dovere. La società deve insegnare la storia e far comprendere quali sono le cause e quali sono gli effetti di ogni fatto, di ogni fenomeno, ogni cosa, quale terreno, quale radice, quale tronco, quale coltivazione e quale sogno hanno portato a maturazione il frutto che si sta assaporando. 

Allora probabilmente sbagliavo quando ho detto, qualche riga sopra, che la storia è la disciplina più difficile da insegnare. In fondo, metodologicamente, è la più semplice. Basta soltanto dirsi: ecco, noi siamo qui, ora, così. Vediamo di capire chi siamo noi, perché siamo qui e perché il qui è nel modo in cui lo vediamo, perché siamo così come siamo, perché ora è diverso da allora e perché chi c’è ora è diverso da chi c’era allora, che cosa ha provocato il cambiamento di noi, del qui, del così. 
Ecco, il metodo è semplice davvero. Poi comincia il groviglio delle risposte, delle ipotesi, delle analisi, delle comparazioni, dei distinguo, delle interpretazioni. Ma il bello dell’insegnamento e dell’apprendimento della storia sta proprio nel tentativo di sgrovigliare il groviglio. 
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