"Globish" o italiano? Primato alla scienza, non alla lingua

"Globish" o italiano? Primato alla scienza, non alla lingua
di Luca BANDIRALI
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Martedì 9 Maggio 2017, 17:59
Nell’aula magna di un ateneo della Capitale, affollato di studenti che commentano coloritamente il recente derby con forte accento romanesco, si tiene un importante convegno sull’architettura razionalista italiana. Il professor Rossi dell’università di Bari introduce la relazione del professor Bianchi dell’università di Bologna. E lo fa con queste parole: “I’m very pleased to welcome professor Bianchi to our international conference”. Bianchi non si sorprende che il collega gli si rivolga in inglese, sebbene fino a un momento prima i due abbiano a lungo parlato in italiano; e nel prendere ora la parola, si uniforma all’inglese di Rossi, dando inizio alla propria relazione sulle opere non realizzate di Giuseppe Terragni. Anche la platea non è turbata dal fatto che due studiosi italiani di chiara fama si esprimano in inglese, a beneficio di un uditorio per la maggior parte composto da studenti e studiosi italiani. Seguire la conferenza non è particolarmente difficile, anche perché l’inglese di Bianchi e degli altri relatori italiani è in linea di massima poco elaborato, sia a livello sintattico che lessicale.

A questo convegno ipotetico si parla il “globish”, ossia l’inglese globale che la comunità scientifica internazionale ha adottato da tempo, nella realtà, per le pubblicazioni e i convegni che contano, nonché per alcuni corsi di laurea magistrale e dottorati. L’adeguamento è partito dalle scienze dure, i cui “gerghi” specialistici sono scarni, efficaci e spesso già fitti di anglicismi; e ora si estende alle scienze umanistiche, per l’occasione ribattezzate “humanities”. Della questione si stanno occupando in molti, anche ai massimi livelli istituzionali: può la comunità scientifica di un paese perdere la sovranità linguistica? La Corte Costituzionale, per esempio, lo nega in una sentenza recente, come ha ricordato giorni fa Lorenzo Tomasin su “Il Sole – 24 Ore”, in un articolo che ha per titolo un’esortazione accorata: “Che l’inglese non sia liberticida”.

Le argomentazioni a sostegno di quello che la Corte Costituzionale definisce “primato della lingua italiana” sono molteplici, alcune di semplice buon senso e finalizzate a non sconfinare nel surreale, come nell’esempio che apre questa riflessione. Se in un convegno si registra una maggioranza linguistica, che senso ha parlare in un’altra lingua? Fatta salva la tutela dei relatori anglofoni, naturalmente, che interverranno nella loro lingua madre. I relatori francesi allora si esprimeranno in francese, benissimo. E per lo studioso uzbeco, come ci si regolerà? Traduzione simultanea in italiano, certo, ma con costi elevati per eventi che spesso si realizzano con budget irrisori: e in ogni caso, una relazione di convegno dura appena venti minuti, ma come comportarsi nel caso di un corso universitario? Insomma, per accedere a un dibattito effettivamente internazionale, qualche soluzione di compromesso deve essere adottata.

Ha certamente ragione Tomasin quando accusa il “globish” di una certa goffaggine, anche se gli studiosi italiani, specie i più giovani che hanno fatto il post-doc nei paesi anglosassoni ma anche tanti navigatissimi ordinari, non parlano certo come Totò e Peppino o come i politici. Altri commentatori osservano che paradossalmente la diffusione di questa lingua franca penalizza soprattutto i madrelingua inglesi, che vengono compresi meno perché usano strutture complesse e un numero di vocaboli molto più esteso dei 1500 da cui pare sia costituito il “globish”. Tutto vero, ma vogliamo almeno riconoscere qualche pregio a questo ennesimo brutto tiro della perfida Albione?

Per prima cosa, soprattutto nell’area umanistica, esprimere un concetto in inglese obbliga a una linearizzazione del pensiero che ha un effetto benefico, sia perché ci si accorge che si può dire una cosa complessa in un modo semplice, sia perché si scopre che nella nostra lingua a volte, al netto di pesanti strutture retoriche, non stiamo dicendo niente. Ci siamo costruiti nel tempo una serie di formule riempitive, di collegamenti fissi, che l’inglese fa saltare privandoci di una sicurezza soltanto apparente: per molti, questa scoperta può costituire un salto evolutivo verso un profilo scientifico migliore. Ricordiamoci poi che un intervento di convegno non è un brano poetico la cui qualità è strettamente dipendente dal significante oltre che dal significato: alla seduta pomeridiana di un seminario di meteorologi è poco importante se il “meriggiare” sia esattamente “pallido e assorto”.

Infine, sarà anche vero che il “globish” è una lingua dappoco, certamente distante dalla lingua di Shakespeare; ma l’italiano di molti parlanti è al livello del Manzoni? Non sembra. In molti casi si tratta di un “localese” costituito da un ristretto numero di vocaboli e funestato da tic linguistici, espressioni pleonastiche, ridondanti (“non a caso”, “come dire”, “in qualche modo”), spesso utilizzate in modo errato (“piuttosto che”, “assolutamente”), sempre esibite come inesorabile intercalare, per prendere tempo e girare a vuoto.
Allora forse il problema è un altro: che sia in un inglese globale o in un italiano forbito, cerchiamo di dire davvero qualcosa, affinché il primato sia della scienza e non della lingua.
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