La Giustizia, i tempi lunghi e il buon senso

di Rosario TORNESELLO
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Domenica 8 Maggio 2016, 18:33 - Ultimo aggiornamento: 18:44
La lotta alla corruzione ha un’arma straordinaria nel buon senso: l’importante è non caricarla a salve, simulando determinazione; non ingolfarla di buone intenzioni, di cui sono noti gli effetti collaterali; non impugnarla a mo’ di clava, sull’onda di afflati purificatori. È la misura il segreto. Non nel senso di misura cautelare, su cui pure tanto si discute in questi giorni di ferite aperte e dibattiti aspri, nell’annuncio tonitruante di una nuova stagione di conflitti tra politica e magistratura (e nella politica e nella magistratura), ma proprio nel senso di limite, di giusto mezzo, di margine operativo utile. Di confine oltre il quale le parole e i fatti degradano idee e obiettivi. Bella forza, si dirà. Il primo problema, pressoché irrisolvibile, è darsi proprio la definizione di buon senso. Tuttavia la presenza contestuale a Maglie del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e del presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, davanti a una platea di studenti liceali, fornisce elementi utili per tracciare dei punti fermi. Vediamo.

Primo, preliminarmente: i costi. Tutti sanno che la corruzione c’è. Molti ne parlano, in pochi la vedono, qualcuno la quantifica, i magistrati la perseguono ma quasi nessuno la denuncia in concreto, al di là di analisi e allarmi. Parlarne a dei ragazzi significa argomentare davanti a chi probabilmente non ha avuto ancora la sventura di imbattersi nel malaffare. Almeno non direttamente. Per uscire dalle nebbie, tre coordinate aiutano a definire la propria posizione: il ricorso alle mazzette inibisce l’investimento in innovazione (giacché i soldi sono destinati ad altro), favorisce la fuga dei cervelli (che - scalzati dai raccomandati - trovano miglior impiego altrove) e, infine, aumenta rischi e pericoli (per la conseguente minor qualità di servizi e lavori). Provare a unire i punti per capire se si è dentro o fuori dalla palude. A seguire, il resto.

Secondo: la rivoluzione deve essere di tipo culturale. E questo richiede tempo, motivo in più per non star fermi a discettare solo di inasprimento delle pene. C’è molto da fare, anche se molto è stato fatto. L’ultimo choc collettivo, quello di Tangentopoli (un quarto di secolo fa), ha liquidato la Prima Repubblica ma ha dispiegato i suoi effetti senza attivare gli anticorpi sociali, racchiuso nella spirale repressione-sanzione-stigmatizzazione (del singolo, non del fenomeno). In più, per dirla con Davigo, ha prodotto una sorta di selezione naturale della specie: sono sopravvissuti e hanno proliferato i più “capaci”. Sicché ora la corruzione per il partito è rara ma in compenso quella individuale s’è affinata e sono esplosi i cosiddetti “comitati d’affari”. Scardinare da dentro il sistema è arduo. Si comincia a parlare di “agente sotto copertura”, sulla scia di quanto avviene nel contrasto al traffico di droga. Ed è qualcosa. Ma l’approccio è complesso. Proprio sotto il profilo culturale. Una prova? La traduzione quasi impossibile in italiano del termine “whistleblower” (da “to blow the whistle”, soffiare col fischietto). Nei sistemi anglosassoni designa (e onora) chi segnala un fatto illecito; da noi l’approssimazione lessicale fatica a tenersi a debita distanza dal poco lusinghiero “spia”. Incentivare il ricorso alla denuncia (con tutela degli interessati) ha già un primo ostacolo nella parola scelta: intraducibile o impronunciabile. Ed è quanto dire.

Terzo: le sanzioni penali segnano la corsa al rialzo delle pene. Difficile, tuttavia, che lo spauracchio del carcere contenga il ricorso alle mazzette (semmai ne determina un aumento in valore). Un riflesso più concreto e diretto è nella prescrizione del reato, che così si allunga. E qui uno dei punti dolenti: quanto deve durare un processo? quanto è giusto attendere perché si arrivi a sentenza definitiva? Spostare il limite della prescrizione vuol dire concedere maggior spazio all’accertamento della verità, ma andare troppo in là significa vanificare le esigenze morali e fattuali di giustizia verso i colpevoli (con le dovute eccezioni) e tenere a vita sulla graticola gli innocenti (non pochi). «La prescrizione è un istituto di garanzia per il sistema - spiega Cantone -. Sento dire: dopo il rinvio a giudizio blocchiamola. È una cosa che mi preoccupa. Lo dico da magistrato e da cittadino». Aumentarne i termini senza incidere sui meccanismi di durata dei processi crea un doppio danno. Difficile da scardinare l’obbligatorietà dell’azione penale (dell’altro giorno l’assoluzione in Cassazione, terzo grado, di un clochard per un furto da quattro-euro-quattro), ma sulla priorità si può lavorare: corsia preferenziale alle emergenze.

Quarto: gli strumenti. Non si può puntare solo sulla repressione, ormai è chiaro. E tuttavia anche qui i possibili interventi sono molteplici. Dalle interdizioni, senza passare necessariamente dal carcere, alle intercettazioni, altro nervo scoperto: usarle senza abusarne. Buon senso, appunto. Dice Legnini: «Le intercettazioni sono fondamentali, ma occorre stare attenti a quanto viene divulgato e a equilibrare tra loro diritto di riservatezza e dovere di informazione». Aggiunge Cantone: «Estendiamo alla corruzione le tipologie di intercettazione che si applicano per la mafia». Sul primo aspetto, in arrivo una direttiva del Csm agli uffici giudiziari. Sul secondo occorrerebbe un passaggio legislativo. Si accettano scommesse su come e quando avverrà. Se avverrà.

Quinto: l’obiettivo finale. La prevenzione è stata il capitolo a lungo dimenticato, o quanto meno trascurato. L’azione dell’Autorità nazionale anticorruzione punta a risalire il corso fisiologico dell’illegalità. Correttezza e trasparenza degli appalti segnano una prima demarcazione tra lecito e illecito. Strada complessa, che passa anche dallo snellimento delle procedure e dallo sfoltimento dell’apparato normativo. «Molte leggi, molta corruzione»: Legnini ricorre a Tacito per sottolineare il concetto. Ma qui si tratta di fare anche altri sforzi. Tutti. Parlare ai ragazzi significa allargare il fronte di azione. Ed è un ulteriore passo. Senza degenerare nel manicheismo: da una parte tutto il bene e dall’altra tutto il male. Le zone grigie sono estese ma non per questo necessariamente infette. Nel dubbio Cantone prova a imprimere la svolta: la luce è il miglior disinfettante. E il punto è proprio questo: quanti sono disposti a uscire dall’ombra?
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