La riforma della Giustizia? Un'altra occasione mancata

La riforma della Giustizia? Un'altra occasione mancata
di Giovanni VERDE
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Venerdì 16 Giugno 2017, 17:58
Il Parlamento, a botta di voti di fiducia, ha approvato la riforma del processo penale (una delle tante di una vicenda senza fine). Opporsi era una battaglia di civiltà. Ma la battaglia è stata persa e resta l’amaro in bocca della sconfitta. Credo, tuttavia, che non ci fossimo fatte illusioni. Sapevamo che avremmo perso. Da ragazzo, sono stato sempre dalla parte di Ettore e ho sempre avuto sulle scatole Achille. Mi affascinava (e tuttora mi affascina) l’idea romantica dell’eroe che combatte la sua battaglia, sapendo di non avere possibilità di successo, ma di doverla combattere in difesa di quanto gli è più caro. In definitiva, in difesa della propria dignità.

La riforma oramai è legge. Lasciamola da parte (e aspettiamola alla prova dei fatti) per alcune considerazioni di carattere generale. Il Parlamento – si dice - ha approvato. Ne siamo certi? Questa riforma è l’esempio tangibile che oramai il Parlamento non conta nulla. Non solo la riforma è imposta dal Governo, che ha – diciamola brutalmente - ricattato il Parlamento, chiedendo la fiducia, ma si tratta di una riforma, per così dire, abbozzata, che molto rimette all’esecutivo e ai decreti che dovrà emanare (con correlati problemi di costituzionalità). Ed in questo campo, esecutivo vuol dire soprattutto magistratura, che da tempo oramai ha il monopolio nell’imporre e scrivere leggi in materia di giustizia (quando si farà un’effettiva riforma del Ministero della giustizia, oggi presidiato da magistrati che circondano e condizionano il Ministro, imponendo la loro prospettiva che è quella della corporazione e non quella del cittadino?).

Il processo. Da tempo immemorabile ci abbarbichiamo all’idea che i problemi della giustizia si risolvano riformando il processo o i processi. E facciamo altrettanti buchi nell’acqua, se non di peggio. Il fatto è che non sappiamo bene che cosa vogliamo con la giustizia. Da un lato, perseguiamo la chimera di una giustizia sovrumana che dà esattamente a ciascuno il suo (“suum cuique tribuere”, come ci ricorda l’icastica frase dei nostri antenati) e che, di conseguenza, punisce tutti, ma proprio tutti coloro che infrangono una legge (come vuole, chimericamente, la nostra Costituzione, imponendo l’obbligatorietà dell’azione penale). Dall’altro lato, ci accontentiamo di una giustizia sempre più approssimativa, tale che i processi, che si accumulano a montagne negli uffici giudiziari, sono pratiche da evadere e, nel caso del processo penale, da chiudere con un timbro di avvenuta prescrizione.

Come contribuenti paghiamo il costo di un ufficio monumentale quale è la Corte di Cassazione, le cui spese complessive sono ben superiori a quelle che paghiamo per gli stipendi dei magistrati, e ogni giorno di più ci chiediamo se abbia senso sostenerle. Infatti, oramai la Corte di Cassazione, sposando l’idea di “grandeur” che, per la verità, è propria anche di altre Corti cosiddette supreme, si appropria di funzioni legislative e sempre più di frequente si esibisce in chilometriche pronunce nelle quali detta le regole, spesso anticipando con i propri “desiderata” scelte che il legislatore non ha saputo o voluto fare. E per curare questo aspetto, poco o nient’affatto si preoccupa delle esigenze di giustizia (di qui una ricerca minuziosa di pretesti per dichiarare inammissibili o improcedibili i ricorsi senza esaminarli nel merito).

Come contribuenti, prima ancora che come cittadini, avremmo diritto ad un processo gestito da un giudice esperto e qualificato. Oggi, perfino in Corte di Appello si fa ricorso a giudici avventizi, contro i quali nulla c’è da osservare se non che il sistema è organizzato in maniera che l’affidabilità del magistrato è collegata ad una valutazione preventiva di idoneità e ad un attendibile tirocinio; ciò che nel magistrato avventizio manca. Mi fermo qui, anche se il “cahier de doléances” si potrebbe allungare all’infinito.

Confessiamolo. Il nostro senso civico è modesto, non siamo rispettosi delle regole e abbiamo qualche propensione all’illegalità. E tuttavia abbiamo un legislatore che ci asfissia e ci avviluppa con un reticolato di regole quale non esiste in altri Paesi e abbiamo controllori arcigni che pretendono da noi comportamenti virtuosi, che spesso hanno come metro di valutazione più che le leggi i principi dell’etica. Strabismo. Schizofrenia. Se non curiamo queste malattie non saremo in grado di fare alcun intervento in tema di giustizia che non sia peggiorativo. Le risorse sono poche e la spesa per la giustizia non è tra quelle produttive (e non a caso gli economisti l’hanno sullo stomaco). In coerenza, bisognerebbe ridurre l’area del penalmente rilevante, limitandola a ciò che davvero confligge con i valori fondanti della nostra civiltà. E invece siamo capaci di inventarci reati come il traffico di influenze o altre figure consimili. Dovremmo comprendere che non tutte le pretese debbono essere veicolate su percorsi di giustizia uniformi e con sbocco finale in Cassazione. Ed invece non sappiamo rinunciare all’idea che tutto debba essere tutelabile e allo stesso modo dinanzi al giudice.
In questo modo riversiamo la giustizia nel processo. L’esito del processo, ossia il verdetto, dopo dieci o venti o più anni ci lascia indifferenti. L’imputato, nel processo penale, avrebbe già scontato la sua pena, anche se per avventura dovesse essere assolto. E nel processo civile, la parte vittoriosa si è oramai rassegnata, quando non ha accettato una soluzione transattiva (anche se iniqua). L’eterogenesi dei fini comporta che giustizia è fatta perché si è celebrato il processo. Possiamo addebitare al Ministro l’incapacità di vedere la radice del problema? Assolvo il Ministro. Il problema è dentro di noi. Purtroppo.
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