Il genio creativo nei disegni di Pazienza risvegliato dai suoni di Bene

Il genio creativo nei disegni di Pazienza risvegliato dai suoni di Bene
di Stefano CRISTANTE
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Sabato 4 Marzo 2017, 11:30 - Ultimo aggiornamento: 13:51
Quest’anno ricorre una ricorrenza abnorme per gli apprezzatori di Andrea Pazienza, il genio fumettistico pugliese (San Severo di Foggia) scomparso a soli 32 anni: sono infatti passate quaranta primavere dalla pubblicazione delle prime tavole di Pentothal, la prima storia di Andrea pubblicata da Alter Alter (costola di Linus) nel febbraio 1977, mentre le vie di Bologna venivano occupate da irreali carrarmati voluti dal ministro degli interni Francesco Cossiga per sedare gli incidenti occorsi dopo la morte del militante di Lotta Continua Francesco Lorusso, ucciso da una pallottola delle forze dell’ordine.

Pazienza era lì, studente pugliese fuorisede del Dams: le immagini di quei giorni si trasferirono con una facilità che da allora divenne proverbiale sulla carta di Pentothal, costruttrici di immaginario collettivo in tempo reale. Quarant’anni sono un periodo sufficientemente lungo per veder avvizzire le mode più radicate: ad esempio tra gli anni ’20 e gli anni ’60 c’è un abisso estetico, una distanza siderale. Non così, forse, tra gli anni ’70 e il nostro tempo. Non così, certamente, se si osserva l’opera di Andrea Pazienza. Il tempo non sembra trascorso, non vi è nemmeno un granello di polvere su quelle tavole.

Forse perché Pazienza si sottraeva all’usura dei riferimenti estetici momentanei inglobandoli dentro un segno ben più lussureggiante, capace non solo di continue trasformazioni,
 ma di “essere la trasformazione”, come possedendo una natura metamorfica propria. Se funziona ancora ai giorni nostri, è perché Pazienza possiede l’andatura del classico: sapeva far ridere e soffrire in ugual misura, turbare per crudezza e precisione, ferire per spregiudicatezza e stupire per destrezza grafica e per qualità della scrittura.
A questo proposito sto facendo delle piccole scoperte, studiando le sue opere. In Gli ultimi giorni di Pompeo, secondo molti il capolavoro di Pazienza (1987, quindi un altro anniversario), le citazioni poetiche sono numerose e hanno un ruolo particolare nello sviluppo della drammaturgia.
Pazienza, per sottolineare i momenti decisivi delle ebbrezze e delle cadute del tossicomane Pompeo, artista di qualche calibro che può sostentare senza patemi la propria dipendenza dall’eroina, utilizza alcuni potenti poeti russi del ‘900. “Le citazioni poetiche di cui è intrisa la seconda parte di Pompeo – racconta Marina Comandini, vedova di Andrea – provengono dai testi d’un disco di Carmelo Bene, che gli fece conoscere un amico. Questo disco, con le poesie di Esenin, Pasternak e Majakovskij, Andrea lo ascoltava di continuo. Se ne imbeveva. È la colonna sonora di Pompeo”. È una testimonianza molto importante, che fa luce su una fonte letteraria non letta, ma ascoltata.

Nell’opera, Carmelo Bene mette in atto un’impressionante polifonia capace di modificare l’emissione di suono in pochi attimi, consentendo alla phoné di esaltare ogni sfumatura di pensiero e di passione, con scarti, evasioni, abissi, emersioni, rumori, eruzioni, derisioni, urla lancinanti, lacrime, calma perfetta e carica di beatitudine, secondo uno studio e una prospettiva di integrale e fisica adesione ai suoni dei versi, usandoli come armi sonore e mentali e reinventando completamente il testo pur rispettandolo parola per parola, fonema per fonema.

A Pazienza non sfuggì l’insegnamento magistrale di Carmelo Bene, un altro genio pugliese (Campi Salentina). Il disegnatore si sottopose a varie trascrizioni nate sotto dettatura del disco, salvando alla fine versi del solo Pasternak: alcuni di essi escono dal pennarello in equilibratura emotiva con la voce di Bene, seguendo ogni minima variazione di tono nella costruzione dei righi calligrafici. Pazienza usa il pennarello per dipingere parole che assumono la forma dei suoni di Bene. Come in un paradiso di studi mcluhaniani, l’occhio (che guida la mano) è usato in modalità audio. Il fatto che Pazienza attendesse a Pompeo incamerando la rivoluzione culturale proveniente dall’arte di Carmelo Bene è carico di conseguenze: è ipotizzabile che la voce di Bene abbia fatto da guida nella titanica operazione di Pazienza di ricreare tutte le variazioni espressive di una figura o di un ambiente, differenziandole significativamente anche a distanza di una sola illustrazione, o addirittura dentro una stessa illustrazione. Il volto di Pompeo, il soggetto più rappresentato nell’opera, è investigato in ogni espressione possibile e mai normalizzato. È in questo caso evidente che la definizione dell’arte di Pazienza come “eclettica” non è sufficiente a contenere un’energia creativa che tenta un’azione ben più ambiziosa (e necessaria) del riferirsi a molteplici fonti d’ispirazione. Qui non si tratta di appropriazioni momentanee. Qui si tratta di riconoscere una capacità metamorfica inestinguibile, che richiama la malleabilità radicale della voce di Bene, entrambe fondate su una perfezione tecno-miniaturistica in perenne aggiornamento. Ogni singolo tratto grafico di Pazienza ha una propria esattezza, così come ogni singola parola e fonema pronunciati da Carmelo Bene. La corrispondenza tra opere pur così diverse emerge anche dalla rifrazione che giunge a Pazienza da molti dei versi incendiari rielaborati da Bene, il cui centro è la morte traumatica di Majakosvij e l’atmosfera è satura di segni e presagi; tutto materiale che interviene a piene mani nella vicenda tragica di Pompeo.

Sembra perciò evidente quale potrebbe essere il significato delle celebrazioni del quarantennale della pubblicazione della prima opera di Pazienza e del trentennale di Pompeo: trattarlo come un classico, cioè cominciare a studiarlo fuori da ogni agiografia e aneddotica giovanilistica, continuando ad amarlo. E si può anche profittare di un altro doppio anniversario: il 2017 è insieme l’ottantesimo dalla nascita di Carmelo Bene e il quindicesimo dalla sua scomparsa.
Sarebbe il caso di profittare delle ricorrenze e di ricordarsi della petizione che tanti leccesi firmarono l’anno scorso per chiedere che l’intestazione all’artista di quel brutto piazzale che si chiama Foro Boario venisse spostata alla piazzetta del teatro Apollo, recentemente re-inaugurato. La Commissione Toponomastica del Comune aveva fatto sapere che l’idea pareva rapidamente perseguibile, ma da quasi un anno (!) i firmatari della petizione non ne sanno più nulla. Sarebbe doveroso dare una risposta: è inutile lamentarsi del provincialismo culturale leccese quando le occasioni per cambiare anche simbolicamente rotta vengono sistematicamente ignorati dalle istituzioni. Che ne dicono i candidati sindaco? La cosa li interessa?
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