Gabbie salariali? Un’altra ingiustizia per il sud

di Guglielmo FORGES DAVANZATI
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Giovedì 23 Giugno 2016, 19:29
Ha fatto molto discutere un recente studio di Andrea Ichino, Tito Boeri ed Enrico Moretti, presentato al recente Festival dell’Economia di Trento, nel quale gli autori invocano, sebbene implicitamente, il ritorno alle cosiddette gabbie salariali, ovvero a un meccanismo per il quale i salari monetari al Sud dovrebbero essere inferiori a quelli percepiti dai colleghi del Nord. Gli autori argomentano questa tesi con motivazioni che attengono alla giustizia distributiva (sarebbe cioè ingiusto pagare salari uguali in aree con prezzi diversi) e con ragioni propriamente economiche. In quest’ultimo caso, viene rilevato che minori salari al Sud genererebbero maggiore occupazione, sia per la maggiore convenienza delle imprese meridionali ad assumere sia per l’aumento dei profitti che ne seguirebbe e l’aumento degli investimenti.
Lo studio merita di essere commentato soprattutto per l’autorevolezza degli autori che lo hanno prodotto e della loro capacità di influenzare la politica economica nazionale. 

Partiamo anche qui da un dato, provando a capire se è vero che i salari reali (ovvero i salari monetari al netto del tasso di inflazione) sono effettivamente uniformi su scala nazionale. È stato stimato dall’Istat che, prima dello scoppio della crisi, nel settore privato i salari al Nord erano più alti di 13.000 euro l’anno rispetto ai salari percepiti dai lavoratori meridionali, e, per quanto attiene al reddito pro-capite, il divario tra le due aree del Paese è aumentato nell’ultimo biennio dello 0,2%. A fronte della riduzione della quota dei salari sul Pil che ha interessato l’intero Paese nell’ultimo ventennio, vi è ampia evidenza empirica del fatto che – fatti salvi alcuni brevi intervalli congiunturali – il rapporto fra salari dei lavoratori meridionali e salari dei lavoratori settentrionali ha segnato una costante riduzione. Per le ragioni che ho evidenziato prima, la caduta della domanda interna ha interessato soprattutto il Sud, generando un ulteriore incremento dei differenziali salariali. Vi è di più.

L’Ufficio Studi di Banca d’Italia certifica che il processo di divergenza fra retribuzioni nel Mezzogiorno e retribuzioni nel Nord ha origine almeno a partire dall’inizio degli anni novanta e che, per quanto attiene al periodo che intercorre fra il 1990 e i primi anni duemila, l’incremento dei differenziali salariali su scala regionale si situa nell’ordine del 14%. Essendo minori in termini relativi i salari nel Mezzogiorno, i prezzi di vendita dei beni che le imprese meridionali vendono al Nord sono minori dei prezzi di acquisto dei prodotti del Nord da parte dei consumatori meridionali. Si è, cioè, già in presenza di un meccanismo spontaneo di deterioramento delle ragioni di scambio, stando al quale il libero scambio fra le due aree del Paese avvantaggia sistematicamente quella che, in partenza, ha il Pil più alto. Si consideri anche che le due voci principali di esportazione del Mezzogiorno riguardano i mezzi di trasporto e gli apparecchi meccanici, e che la gran parte delle esportazioni proviene da imprese la cui proprietà non è di operatori meridionali. Da un lato, i profitti provenienti dalle esportazioni vanno in parte a beneficio di imprese localizzate nel Mezzogiorno, ma il cui assetto proprietario è esterno all’area. Dall’altro lato, la quota residua di profitti attiene all’esportazione di prodotti intermedi, che vengono lavorati e venduti da imprese all’esterno dell’area, generando incrementi di profitto e beneficio di imprese non meridionali; profitti che, comunque, sono ottenuti mediante riduzioni dei salari dei lavoratori meridionali.

Si stima poi che, nelle regioni meridionali, oltre il 90% delle imprese censite ha un numero di dipendenti inferiore a nove. In tali condizioni, appare del tutto evidente che la contrattazione aziendale o non si fa o, se si fa, è al più un fatto meramente formale che si limita a ratificare l’asimmetria dei rapporti di forza fra datori di lavoro e dipendenti, asimmetria massima nelle micro-imprese. 
È opportuno ricordare che il dispositivo delle gabbie salariali, vigente negli anni cinquanta-sessanta, manteneva ope legis i salari monetari dei lavoratori meridionali più bassi dei loro colleghi settentrionali, con un duplice argomento: 1) essendo differente il livello dei prezzi fra aree del Paese, occorreva tenere basse le retribuzioni nominali nelle aree con prezzi più bassi; 2) essendo minore la produttività del lavoro nel Mezzogiorno, e poiché il salario è (deve) essere commisurato alla produttività del lavoro, occorreva comprimere le retribuzioni nelle aree nelle quali la produttività era minore. L’obiettivo e le motivazioni oggi non cambiano. Si aggiunge che la compressione relativa dei salari al Sud favorirebbe gli investimenti nell’area.

È bene chiarire che nessuno di questi argomenti trova un adeguato sostegno teorico ed empirico. Innanzitutto, se anche il livello dei prezzi è inferiore nel Mezzogiorno, occorre considerare che i lavoratori meridionali accedono a una quantità (e qualità) di beni e servizi pubblici di gran lunga inferiore a quella dei loro colleghi settentrionali. Si consideri che le rilevazioni Istat che vengono poste alla base del ritorno alle gabbie salariali non certificano un livello dei prezzi più basso per ogni bene di consumo nelle città meridionali. A titolo puramente esemplificativo, si può richiamare il fatto che i prezzi più alti dei prodotti dell’abbigliamento e delle calzature - fra tutti i comuni italiani - si registrano a Reggio Calabria. Questo dato non è sorprendente, se si tiene conto dell’effetto descritto in precedenza, stando al quale sono i prodotti importati nel Mezzogiorno ad avere un prezzo maggiore. Nel caso specifico qui citato, l’elevato prezzo dei prodotti dell’abbigliamento e delle calzature a Reggio Calabria può dipendere oltre che dal fatto che si tratta di prodotti importati, anche dai costi di trasporto. Poi, la minore produttività dei lavoratori meridionali non è imputabile al loro scarso rendimento, ma a un bassissimo tasso di accumulazione del capitale. In terzo luogo, e per quanto attiene all’attrazione di investimenti, i riscontri empirici disponibili, riferiti agli ultimi anni, segnalano l’inesistenza di questo effetto. 

Ichino, Boeri e Moretti arrivano alla conclusione per la quale i salari reali sono uniformi sul territorio nazionale solo perché danno un peso rilevantissimo al prezzo delle abitazioni, rifiutando, senza motivazione, di adottare indicatori del tasso di inflazione elaborati su fonti ufficiali (Istat in primo luogo). In tal senso, esso è indicativo di un uso non sempre “scientifico” dei dati, ed è questo un problema sul quale gli economisti e i decisori politici dovrebbero seriamente riflettere. Soprattutto quando si mettono in discussione le condizioni materiali di vita di migliaia di lavoratori. 
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