Il voto francese e le analogie con la politica di casa nostra

Emmanuel Macron dopo la vittoria al primo turno per le presidenziali francesi
Emmanuel Macron dopo la vittoria al primo turno per le presidenziali francesi
di Mauro CALISE
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Lunedì 24 Aprile 2017, 17:07 - Ultimo aggiornamento: 17:48
Per un pelo. Rispettando – una volta tanto – i sondaggi, Macron è riuscito a finire in testa davanti alla Le Pen. E si è fermata, in zona Cesarini, la rimonta dell’outsider Melenchon. Il candidato che, se fosse andato al ballottaggio, avrebbe aperto molto probabilmente le porte dell’Eliseo alla leader di estrema destra. Si sa, la politica – ormai – è come una partita di pallone. Conta solo il risultato. Come sanno bene gli americani. E come, salvo imprevisti, sapranno presto anche i francesi. Per i quali, tra quindici giorni, al posto di quattro concorrenti pressocché equipollenti, ci sarà un solo Presidente, nella pienezza costituzionale dei poteri. Però, tirato il sospiro di sollievo, il quadro resta estremamente preoccupante. Perché ci parla di una frammentazione politica ormai sempre più spinta, ed estremamente volatile.

Sei mesi fa, appena si sapeva chi fosse il giovane banchiere che dovrebbe guidare i francesi. E sono solo poche settimane che, in tutta fretta, i riflettori si sono accesi su un abile oratore – e venditore – che ha fatto il pieno del malcontento di sinistra, riuscendo quasi a sparigliare la partita. Tutto ciò sullo sfondo di un declino, meglio uno scatafascio, dei partiti tradizionali che ha ormai assunto proporzioni incontrollabili. Alla fine, se la Francia può sperare di restare – più o meno – saldamente in Europa, lo dobbiamo solo al combinato disposto del suo sistema elettorale a doppio turno e di un semipresidenzialismo che fa da argine al caos. Proprio quello che, lo scorso dicembre, gli italiani hanno, invece, bocciato mandando al macero riforma costituzionale e legge maggioritaria.

Vista da casa nostra – al netto della profonda diversità istituzionale - la situazione politica francese appare come una fotocopia. Con alcune impressionanti analogie. Anche Oltralpe il sistema politico ha assunto un formato quadripolare. Con una destra moderata che cerca di resistere al ciclone di Marine Le Pen (da noi, i pesi sono ancora invertiti: con Berlusconi che sembra riuscire a far da argine alla crescita dell’estremismo leghista). Poi, nel centrosinistra, sembra quasi di assistere a due varianti dello stesso film. In Francia, la crisi dei socialisti è deflagrata. La vittoria del candidato radicale nelle primarie ha, praticamente, spaccato il partito. Con una scissione dell’elettorato peggiore – se possibile – di quella della nomenclatura cui abbiamo assistito pochi mesi fa da noi. Il vincitore è rimasto con un minipartito allo sbando, mentre i socialisti moderati sono rapidamente confluiti sulla candidatura di Macron. L’emorragia, però, è continuata e – se possibile – peggiorata, facendo ingrossare i ranghi della proposta estremista di Malenchon. Sembra l’anticipo di quello che accadrebbe in Italia se Renzi uscisse sconfitto dalla gara per la segreteria del Pd. Il partito seguirebbe rapidamente la sorte dei cugini francesi, riducendosi intorno al 10%. Con una ulteriore e cospicua frana verso sinistra, con Pisapia nelle vesti di Malenchon. E con il grosso dei perdenti moderati che finirebbero nel partito personale che Renzi, a questo punto, non potrebbe non rassegnarsi a costruire.

Il paradosso del confronto, in fondo, sta proprio in questa diversa scelta strategica. Quando perse la sfida con Bersani, Renzi fu molto tentato dall’avventura solitaria. Ma preferì lanciare l’opa sul partito, impadronirsene alla seconda occasione, e cercare di imporre la sua leadership sui vecchi oligarchi. Il risultato è che, per due anni, i bersaniani e dalemiani se lo sono lavorato ai fianchi. Lo hanno abilmente attaccato in parlamento, e messo – quasi – al tappeto all’appuntamento referendario. Oggi Renzi si ritrova alla testa di un partito molto ridimensionato. Con l’incubo che lo stillicidio di opposizioni e fazioni interne continui anche per i prossimi anni, a giudicare da quello che Orlando e Emiliano hanno finora fatto intravedere.

Sembrerebbe un’ironia della storia, ma dopo essere stati gli inventori - con Berlusconi e una dozzina di epigoni – del nuovo format del partito personale, sono i francesi ad averci mostrato che, al tempo della democrazia del leader, è l’unico modo per vincere. E soprattutto per conservare la possibilità di governare. Chissà se Renzi, osservando l’ascesa fulminante di Macron, non si stia pentendo del tempo speso a cercare di recuperare un partito ricco di storia. Ma poverissimo di futuro.
 
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