I frutti avvelenati della corsa a creare valore

di Carmelo ZACCARIA
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Martedì 31 Gennaio 2017, 14:27
Non sapremmo dire con certezza se la Fiat Chrysler ha violato le norme sulle emissioni inquinanti. Il suo sito web sembra rassicurare. Ti accoglie l’immagine delicata di una distesa di frumento appena raccolto, immersa in una leggera foschia mattutina e recintata da sagome di alberi appena tratteggiati, mentre in lontananza si scorge, come in un paesaggio romantico dell’800, un villaggio agreste che ancora sonnecchia, pacifico e tranquillo. A seguire un’altra foto che riprende un’enorme officina luccicante di impianti nuovissimi e sfolgoranti di una pulizia quasi asettica.
Questo però è il luogo dove si fabbricano autovetture e non un’azienda di design, anche se non c’è traccia di bulloni o di sporcizia né si percepiscono rumori striduli di lamiere squassate. Il messaggio direi ontologico è evidente: noi non costruiamo macchine, noi creiamo e distribuiamo sogni. Perché le aziende ultimamente non fanno altro che proporci i loro sogni sperando che diventino anche i nostri. Tutta questa enfasi sul ricorso all’avanguardia tecnologica, all’economia circolare, all’icona rassicurante di produzioni tendenti al bio risulta a volte così eccessiva da sembrare fuorviante. Nessuno è contro l’innovazione e il progresso tecnico, ma se una volta tanto servissero a mitigare e rendere più decorosa la vita delle persone, non guasterebbe.
La Fca ha il cuore in Olanda e il portafoglio in Inghilterra ma le omologazioni delle sue autovetture sono fatte in Italia probabilmente perché i regolamenti di casa nostra risultano più comprensibili o meno fastidiosi. Tuttavia a parte le dichiarazioni di circostanza sembra difficile fingere stupore per la notizia che la casa automobilistica italo-americana avrebbe falsificato i dati sulle emissioni di alcuni suoi motori diesel, dopo lo svelamento dell’inganno tedesco della Volkswagen.
Contravvenire alle regole, bypassarle, allontanarsene in tutti i modi, appare coerente con la disinvolta audacia predatoria del capitalismo moderno, dopo che la nuova classe di management ha puntato sull’irrilevanza del consumatore rincorrendo strategie e tecniche produttive poggiate sulla realizzazione e l’ampliamento del profitto immediato. Raffaele Simone ricorda in Come la democrazia fallisce (ed. Garzanti) “come siano ormai consolidati i cambiamenti della loro missione aziendale quando l’obiettivo non è più la soddisfazione del cliente, ma la remunerazione dell’azionista, soprattutto se di grandi dimensioni (la cosiddetta creazione di valore)”.
Buona parte di classe dirigente è messa lì per creare valore. Valore per gli azionisti naturalmente a cui viene destinato oltre il 50% degli utili prodotti, magari truccando, se necessario, i dati sulle emissioni, gonfiando attivi di bilancio, cercando scorciatoie normative, ed infine contribuendo a far approvare regolamenti benevoli quando occorre. Nel peggiore dei casi interviene il sussidio statale, come nel caso Alitalia i cui stessi manager hanno ammesso errori nella gestione aziendale, per cui serve ancora la mano pubblica per rimettere in sesto un’azienda dopo soli pochi anni dal salvataggio effettuato dal governo Berlusconi che costò all’erario più di 7 miliardi di euro, nel tentativo di rilanciare il prestigioso gioiello dell’italianità, evitandone il fallimento.
Dal fallimento è stato salvato anche il Monte dei Paschi di Siena vittima anch’esso di comportamenti manageriali perlomeno avventati se non altro per la colpevole spudoratezza dimostrata nella ricerca dell’affare a tutti i costi, dimenticandosi forse il precetto più vincolante richiesto dal proprio mandato, cioè quello di sapere prestare denaro. Nell’arco di un decennio il nostro sistema creditizio è riuscito, con la complice efficienza delle autorità finanziarie europee, ad imprigionare il merito creditizio in un algoritmo artefatto e cavilloso, incapace di governare, come si è purtroppo visto, la peculiarità del fare credito, depurandolo dall’etica e dal buon senso, rinunciando alla competenza e ai contenuti millenari del mestiere di banchiere, accumulando più di 200 miliardi di crediti farlocchi, gran parte dei quali destinati ad operazioni di natura finanziaria, per lo più dettati da convenienza politica o da azzardo speculativo non andati a buon fine e la cui insolvenza ha sottratto denaro al finanziamento dell’economia reale. Anche questo è strettamente coerente con la creazione di valore.
Scrive l’economista Mariana Mazzucato che il valore aggiunto creato dalle sole intermediazioni finanziarie è cresciuto negli ultimi anni molto di più del valore dell’economia reale ed aggiunge che senza un sistema creditizio paziente che persegue strategie a lungo termine non si avrà crescita. Mentre questo comportamento distorsivo continua a pesare sulle crescenti disuguaglianze economiche nonostante le presentazioni rassicuranti che le aziende amano fare di se stesse.
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