Meno tecnocrazia per rilanciare l'Europa

Meno tecnocrazia per rilanciare l'Europa
di Biagio de GIOVANNI
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Domenica 26 Marzo 2017, 17:31 - Ultimo aggiornamento: 17:32
Non sempre dà sollievo e consolazione leggere i documenti celebrativi di un evento. Su questo riflettevo scorrendo con la dovuta attenzione il testo firmato da tutti i leader europei riuniti a Roma per il sessantesimo della nascita della Comunità, chiamata poi Unione europea. Per carità, è scontato che certe cose si debbano dire, che si debba fare l’elenco di tutti i problemi che giacciono sul tappeto duri e irrisolti, e si dica anche che, sì, sono complicati, ma c’è buona volontà di risolverli.

E si spera sempre, soprattutto quando le difficoltà e gli stalli diventano imponenti e sembrano invalicabili, che questa volta si dicano le solite cose, ma ci sia anche dentro la consapevolezza che si è giunti a un punto assai grave e che per davvero bisogna agire. Ma qualunque sia l’attitudine che sta dietro al documento, per le ragioni dette preferisco provare a guardare in faccia la realtà e cercare, in essa, i segni di qualcosa che permetta di vedere il punto di luce che si potrebbe intravedere nel buio del tunnel e però anche le cose che potrebbero tornare ad oscurare tutto.

Per questa ragione, non voglio tornare ad elencare le ragioni della crisi che attanaglia l’Unione e che si sono ripetute in questi mesi fino alla noia. Sappiamo a memoria: Brexit, Trump, populismi antieuropei, euro che funziona male, immigrazione irrsolta, terrorismo, Schengen in difficoltà insieme al tema delle frontiere. Si potrebbe continuare, ma verrei meno alla promessa. Tutte cose fondamentali, allo stesso modo in cui è fondato, ma anche un po’ noioso, ricordare tutto ciò che di bene ha fatto l’Europa nei sessant’anni della sua esistenza: pace per la prima volta nella sua storia; libertà politica assicurata nel continente; circolazione di tanti giovani; una protezione sociale che, nonostante la crisi che attraversa, è ancora tra le migliori del mondo; una immensa potenza commerciale; e la controfaccia di alcuni tra quegli stessi elementi che stanno nella filiera del negativo, come avviene per l’euro.

E allora che dire? Su che riflettere? Su qualche segnale su vari fronti, sia in negativo sia in positivo, segnali che possono essere influenti. Muoverei da lontano, dalle clamorose difficoltà tra le quali è partita l’Amministrazione Trump, e subito afferriamo il nesso con le cose nostre: l’impressione che, se queste difficoltà si approfondiscono, le vie dei populismi si oscurano, e le inebriate dichiarazioni della May su una alleanza epocale tra America e Inghilterra (uso i nomi di battaglia dei due paesi) potrebbero dover attestarsi su una maggiore prudenza e forse spingere verso un Brexit meno duro. E poi due elezioni europee, Francia e Germania, con avvisaglie interessanti: la Germania è sempre lei, un grande paese unito, consapevole di sé (fin troppo, dice qualcuno) e lì perfino la reviviscenza di una socialdemocrazia che dappertutto sembra morta, con la prospettiva di una grande coalizione dove la voce di Martin Schultz potrebbe sopravanzare quella di Angela Merkel. E poi la Francia, dove per davvero si decide un destino, e dove la forza del candidato “nuovo” Macron promette assai bene per il ballottaggio e per la messa in decisa minoranza del Fronte lepeniano. Se le cose andranno così, alcune situazioni sospese potrebbero prendere un diverso avvio. Se Francia e Germania si rimettono in cammino, la storia dell’Unione può incominciare a cambiar verso. Se in Italia non ci fosse il caos che c’è, conseguente, a parer mio, al fallimento della riforma costituzionale, aggiungerei anche essa ai due, e, senza proclamare al mondo l’Europa a più velocità (che è, si direbbe, anzitutto un errore di comunicazione, e per me non solo tale) beh, tre paesi come i tre ricordati avrebbero potuto formare un pacchetto di mischia iniziale capace di mettere in moto le potenzialità di un’altra Europa: ho usato un condizionale al passato, ma resta aperto il tema, se anche in Italia le cose andassero in un certo modo. Insomma, il 2017 potrebbe vedere l’inizio della crisi di quelli che vengono chiamati populismi, con una possibilità di riabilitazione di élite politiche capaci di un nuovo linguaggio.

Forse ho le traveggole, una ventata di ottimismo, e dunque subito faccio un passo indietro e guardo a temi spalancati davanti a noi, il lato oscuro della storia. Il lato oscuro di Europa si chiama “democrazia”. Che voglio dire? Intendo richiamare il distacco della decisione politica che avviene nell’Unione europea dalla rappresentanza politica dei popoli, con l’effetto di mostrare le tecnocrazie sul ponte di comando. La reazione è il populismo, e non solo. La reazione (impressionante l’intervista a Michel Houellebecq di qualche giorno fa sul Corriere della sera) è che si dichiara la fine della democrazia rappresentativa, e che finalmente è destinata a vincere la democrazia diretta. Se si completa l’espressione “democrazia diretta” con la specificazione “dall’alto”, allora sì, va bene, perché non c’è volo pindarico che possa far vivere in società sterminate la democrazia diretta con immensa partecipazione di popolo alla diretta decisione. Ci sarà sempre Uno, più o meno visibile, che sta in alto e tira le fila di tutto, e così la democrazia diretta finisce con il negare il suo stesso sostantivo. Ormai si scherza col fuoco, sembra tempo di irresponsabilità.

Ma siccome quella distanza tra decisione europea e rappresentanza politica dei popoli è sempre più manifesta, allora la risposta deve andare nella direzione seguente: ridurre l’entità delle decisioni sovranazionali, rinazionalizzare molto le politiche e lasciare all’Unione europea uno spazio più ridotto di decisioni politiche per davvero comuni. Riaggiustare il tiro, dal momento che è difficile e forse impossibile trascinare la democrazia politica oltre i confini dello Stato senza cadere nelle confusioni indicate. Il tema è estremamente complicato, fino a dare il capogiro, ma non credo sarà evitabile. Se si ragiona su un riequilibrio in questa direzione, molte cose possono trovare una soluzione più ragionevole, più comprensibile, senza che sia messo in discussione il nucleo di ogni democrazia che è la rappresentanza -con la buona pace, tra gli altri, dei nostri Cinquestelle- e neanche la necessità dell’Europa.
 
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