Non basta l'anniversario per rilanciare l'Europa

Non basta l'anniversario per rilanciare l'Europa
di Giorgio LA MALFA
5 Minuti di Lettura
Sabato 25 Marzo 2017, 18:30
Vi sono tre date cruciali per la storia dei tentativi di integrazione politica dell’Europa nel secondo dopoguerra. Fra queste non c’è il 26 marzo del 1957, di cui i 28 paesi dell’Unione europea (che presto diverranno 27) si apprestano a celebrare, ritualmente, a Roma il 60 anniversario. La prima data è la data della speranza. Il 9 maggio del 1950, l’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman indirizzò una lettera importantissima al suo collega tedesco nella quale sosteneva la necessità di promuovere una più stretta unione dei popoli europei.

Allora si faceva riferimento solo a quelli dell’Europa Occidentale, essendo tutte le capitali dell’Europa centro-orientale sotto il controllo dell’Unione Sovietica. «L’unione delle nazioni scrisse Schumann esige l’eliminazione del contrasto secolare fra la Francia e la Germania. L’Europa aggiungeva non potrà farsi in una sola volta né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto». Per questo proponeva di mettere in comune le risorse del carbone e dell’acciaio. Un anno dopo veniva firmato il Trattato che istituiva la Ceca, che è stata una delle basi del grande sviluppo economico dell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra.

La seconda data, di poco successiva, è la data della fine prematura delle illusioni politiche sul futuro dell’Europa. È il 30 agosto del 1954. Dopo il Trattato della Ceca era stato stipulato un Trattato che istituiva la Comunità europea della difesa. La Ced avrebbe avuto un esercito comune ed un organo politico che avrebbe diretto la politica estera: sarebbe stato il passo cruciale verso la creazione degli Stati Uniti d’Europa. Ma il Senato francese decise di non porre neppure all’ordine del giorno la ratifica del Trattato della Ced. E pochi anni dopo, giunto De Gaulle al potere, con una battaglia memorabile, la Francia impose che il potere politico cruciale in Europa restasse nelle mani dei governi, attraverso i consigli dei ministri e quelli dei capi di Stato e di governo. La via federale era preclusa. I trattati di Roma furono il tentativo di rilanciare l’Europa dopo il fallimento della Ced, ma naturalmente essi non potevano riproporre la via politica che la Francia aveva sbarrato. Si dovette ripiegar sulla strada suggerita da Jean Monnet: piccoli passi soprattutto sul terreno economico, ben studiati ed in grado di giovare a tutti i paesi membri, assicurandosi che tutti procedessero insieme.

Questa logica ha funzionato bene negli anni del Mercato comune, poi in quelli della Comunità economica europea e del Mercato unico, fino alla decisione fatale dell’unificazione monetaria e dell’euro che è il frutto, avvelenato, di un’accelerazione dovuta alla terza data cruciale per la storia dell’Europa del dopoguerra: il 9 novembre del 1989, quando il Muro di Berlino crollò di colpo e aprì la strada alla riunificazione tedesca ed al ritorno della libertà nei Paesi dell’Europa centrale ed orientale. La caduta del Muro di Berlino mise in moto contemporaneamente due treni, quello dell’ampliamento dell’Unione europea per includere i Paesi appena usciti dall’area sovietica e quello della moneta unica. Ma si trattava di due treni fra loro incompatibili, perché la moneta unica avrebbe richiesto l’unione politica, cioè di fare quello che all’Europa era sfuggito nel 1954, mentre l’allargamento a est avrebbe inevitabilmente reso meno omogenea l’Unione e quindi più difficile il già arduo cammino verso l’unione politica.

Sarebbe stato necessario riflettere molto seriamente in quale direzione andare: verso la più stretta integrazione attraverso la moneta unica o attraverso l’allargamento per consolidare i processi democratici nei Paesi appena liberati dal comunismo. E invece, per colpa principale della Francia, terrorizzata all’idea di una Germania riunificata e senza vincoli europei, ma anche per il generico europeismo delle classi dirigenti di molti altri Paesi europei incluso il nostro, ci si è buttati nell’avventura della moneta unica che aveva bisogno di un fondamento politico analogo a quello che avrebbe fatto da sostrato alla Ced. Ma ora la Francia avrebbe voluto una sovranità europea, ma la Germania non era più disposta a rinunziare alla propria sovranità per condividere i problemi di Paesi verso i quali il giudizio è essenzialmente quello che si è lasciato sfuggire ieri il ministro olandese delle finanze. La Germania era ormai forte e poteva dominare le scelte: ha preso quello che le è stato utile dalla moneta unica e quello che le è stato utile dall’allargamento. Ma non intende pagare il prezzo che in genere le leadership internazionali portano con sé.

Così si è ampliata l’Europa verso est, che è stata una buona decisione, perché ha aiutato la transizione di questi Paesi verso la democrazia e verso un’economia di mercato, ma si è fatta la moneta unica che invece, senza il sostrato politico necessario, è diventata una gabbia sempre meno sopportabile da parte dei paesi che ne subiscono le conseguenze. Ecco perché la celebrazione dell’anniversario dei Trattati di Roma non può essere e non sarà un’occasione politicamente significativa. A Roma nel 1957 si celebrava il fatto che, dopo la severa battuta di arresto della Ced, si ripartiva anche se su un terreno meno ambizioso.

Oggi l’Europa non è in condizioni di ripartire: è spaccata al suo interno su tutto, dalle politiche verso l’immigrazione, alla politica economica. Non sta lavorando per creare legami fra i Paesi membri; sente il peso di vincoli eccessivi che vorrebbe scuotere via. Non vogliono i vincoli, i Paesi deboli, ma non vogliono le responsabilità la Germania e i Paesi forti. In un certo senso ha ragione il nostro presidente della Repubblica nel denunciare la pochezza dei risultati attesi da questi vertice e soprattutto la gravità del riconoscimento del principio delle diverse velocità, che implica il definitivo venir meno dell’idea dell’Unione politica dei Paesi europei, ma gli errori commessi a Maastricht pesano e la classe dirigente europea, più che annunciare improbabili passi in avanti, farebbe meglio a cercare il modo di allentare dei vincoli che alla lunga rischiano di essere incompatibili con il riconoscimento dei diritti democratici essenziali degli elettori dei vari Paesi membri.
© RIPRODUZIONE RISERVATA