Elezioni comunali. A chi serve una politica debole

di Claudio SCAMARDELLA
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Lunedì 24 Ottobre 2016, 12:01 - Ultimo aggiornamento: 26 Ottobre, 18:42
La giusta e appassionata sollecitazione, lanciata ieri su queste colonne dal nostro editorialista Ferdinando Boero, su cosa la città dovrebbe chiedere agli aspiranti sindaci è solo l'ultimo tentativo di squarciare l’angusto orizzonte del confronto politico in corso sui candidati. Un confronto che negli ultimi giorni ha toccato livelli sempre più scadenti.

Certo, era largamente prevedibile che il dibattito nei e tra i partiti per la scelta dei candidati-sindaco a Lecce non sarebbe stato un bel vedere. Era facile anche immaginare la debolezza, oltre che l'inadeguatezza culturale e progettuale del ceto politico locale rispetto alle esigenze di una città in cammino come Lecce, al centro di un passaggio epocale e nel mezzo di un travolgente processo di trasformazione che sta producendo nuovi ceti sociali, nuovi bisogni, nuove domande di governo e nuove aspettative dalla gestione delle istituzioni pubbliche. Eppure lo spettacolo delle ultime settimane, a destra come a sinistra, sta facendo impallidire anche le più pessimistiche previsioni.

Sta emergendo un abisso, anche questo purtroppo prevedibile, tra ciò che è capace di produrre una partitocrazia ormai senza partiti, tra ciò che è in grado di offrire una politica politicante attraversata al suo interno da bande e piccole sette, contraddistinta da personalismi e interessi particolarissimi, pervasa da visioni padronali se non addirittura familistiche dei partiti e delle stesse istituzioni, e la portata storica dei cambiamenti in corso con il salto di qualità da “paesone di provincia” a “città europea” sempre più imposto dall'incalzare delle nuove sfide. Proprio in questi giorni di trattative, schermaglie e stucchevoli tatticismi, appare palpabile quel maligno circolo vizioso che tiene prigioniera la città: in assenza di “societas”, il ceto politico non riesce a emanciparsi da una condizione di subalternità e di debolezza, scadendo a doroteismo puro, trovando cioè la massima realizzazione nella sola gestione del potere per il potere stesso; a sua volta la “societas” non riesce a ricomporsi e a dispiegare tutte le sue potenzialità se manca la decisiva forza e autorevolezza della comunità politica. Anche la storia di Lecce, come di gran parte delle città del Sud, gira intorno alla perversità di questo circolo vizioso che consente a un blocco di alleanze trasversali e “transpolitiche” tra grandi famiglie, segmenti della borghesia delle professioni ed élite intellettuali di gestire il potere reale attraverso l'ormai famosa “camera di compensazione”, relegando la politica a una funzione essenzialmente notarile. In presenza di quel maligno circolo vizioso e in assenza di un blocco sociale propulsore di un progetto (non di un programma) e di una visione generale, la politica si ritrova a essere un circuito chiuso, autoreferenziale, fondato su rapporti amicali e parentali, chiamata a svolgere la semplice funzione di ratifica delle decisioni maturate altrove. E i politici, compresi i candidati sindaci dell'una o dell'altra parte, diventano pedine intercambiabili, nel senso che un nome può valere l'altro, non solo dentro la stessa coalizione ma anche tra quelli appartenenti a schieramenti contrapposti. Tant'è che il cosiddetto “valore aggiunto” del candidato non è misurato dalla sua autorevolezza e dalla sua capacità di indicare una direzione, ma esclusivamente dalla potenza della sua macchina di consensi e dalla sua “presentabilità”.

Poco funzionali, invece, i candidati con forti personalità, con grande autonomia, capaci di elevarsi ed esaltarsi nella funzione di guida della città, di dire dei no chiari e forti - quando sono necessari per l'interesse generale della città - a lobby, grandi famiglie, élite della borghesia delle professioni e della borghesia intellettuale. E capaci di dire no anche a interessi di piccola bottega, pronti a sfidare e violare quelle nicchie corporative e quelle resistenze in difesa di piccoli interessi. È questa la cifra che più di ogni altra dà l'esatta debolezza del ceto politico locale.

La fotografia di queste settimane è nitida. Il centrosinistra leccese è letteralmente in ginocchio, scomparso dai radar, dopo la pessima figura compiuta con la candidatura di Alfredo Prete, annunciata e fallita nel giro di poche ore. Una gestione approssimata, ondivaga, a tratti dilettantistica dei gruppi dirigenti e dei loro sponsor, condita da un'avvelenata guerra tra bande interne. Ma è soprattutto il retroterra di quella scelta che deve indurre a riflessione. Il ricorso ad una figura della cosiddetta e presunta “società civile” non è stato il tratto finale di un percorso progettuale e nemmeno di un'inseminazione di blocco sociale con il coinvolgimento anche dei ceti emergenti, ma una sorta di scorciatoia per scongiurare che il “tavolo” esplodesse con raffiche di autocandidature, richieste di primarie e veti incrociati tra alleati. Più che una strategia d'attacco, più che un progetto di largo respiro è apparsa come una scelta difensiva e dall'orizzonte ristretto: di fronte alle profonde lacerazioni interne, un “papa straniero” poteva rappresentare il minimo comun denominatore tra le opposte fazioni. Qualche giorno fa, Prete ha candidamente ammesso che il suo coinvolgimento (tra proposta, ufficializzazione e rinuncia) è durato non più di quattro o cinque giorni, e che tutto sarebbe nato da una proposta di disponibilità avanzata da alcuni suoi amici del gruppo dirigente del Pd. Non solo. Lo stesso Prete ha altrettanto candidamente ammesso che alle prossime elezioni non sarà per nulla scontato il suo voto al centrosinistra e che sceglierà in base ai programmi e ai candidati in campo. Una conferma palese dell'intercambiabilità di candidati, partiti e schieramenti. Una dimostrazione plastica del complesso di minorità che soffre una politica incapace di elevarsi ed esaltarsi in una funzione di guida e di costruzione di senso. 

Lo scenario offerto dal centrodestra negli ultimi giorni non è certo di spessore diverso. Anzi. Da un mese, l'intero confronto ruota intorno a cinque nomi avanzati dal sindaco uscente e a fine mandato in una sede ufficiale (cioè, incontri con i partiti alleati). Tratto, questo, già di per sé molto singolare, più unico che raro nel panorama politico nazionale. Avviene solo a Lecce che una coalizione sia chiamata a discutere su una rosa di nomi indicata non da un partito o da un disegno complessivo, ma da un singolo. Una rosa, come prevedibile, che ha subìto una progressiva scrematura da veti e impallinamenti degli alleati. Al di là delle (false) dichiarazioni di rito, di quei cinque nomi ora restano in corsa due e mezzo, e tra qualche settimana, sempre come era prevedibile, soltanto due. A quel punto, sarà l'esito del referendum costituzionale a decidere: se le poltrone in palio nelle prossime politiche resteranno le stesse (cioé, Camera e Senato), la scelta tra i due candidati rimasti in campo sarà scontata. Ogni pedina andrà al proprio posto. Il blocco di potere delle grandi famiglie e la “camera di compensazione” garantiranno la continuità. E, come avvenuto in passato, chi in quella “camera di compensazione” ha diritto di accesso per censo, conoscenze o rapporti amicali e parentali non uscirà sconfitto, anche se schierato ufficialmente con la coalizione perdente alle elezioni.

Resta solo da chiedersi: è questo che serve a Lecce? Che cosa c'entra la città con questi incastri di poltrone, decisi magari all'interno di consessi amicali o, addirittura, parentali? Che cosa c'entra tutto ciò con il futuro delle giovani generazioni leccesi, dell'Università, del centro storico, delle periferie, delle marine che potrebbero fare di Lecce anche una città di mare, della cultura fin qui intesa solo come consumo (anche di scadente livello) piuttosto che come volano di produzione e di sviluppo? Nulla. Assolutamente nulla. Ma la responsabilità principale ricade sulla presunta “società civile”, non solo sul ceto politico debole e subalterno, o sui candidati scelti magari per la loro “addomesticabilità”.

Il nostro giornale proverà in tutti i modi, nei prossimi mesi, ad arginare questa deriva, suscitando confronti veri e un coinvolgimento a tutto campo della città. Senza farci condizionare da maldestre e strumentali azioni intimidatorie provenienti da consorterie e inquilini dei palazzi della politica. Senza cadere in provocazioni e senza cedere a pressioni. Anzi, rivendicando con forza la nostra autonomia e indipendenza, la nostra credibilità grazie alla professionalità dei nostri giornalisti e all'appartenenza a un grande gruppo editoriale nazionale. Il nostro impegno, prima e durante la prossima campagna elettorale, sarà quello di essere ancora più vigili e attenti, senza sconti per nessuno, a destra e a sinistra, agli uscenti e agli entranti, agli amici e ai parenti. 
Ce lo chiedono ogni giorno i tantissimi lettori. E noi ne siamo orgogliosi.
 
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