La crescita c'è, ma resta debole e non tocca l'industria

La crescita c'è, ma resta debole e non tocca l'industria
di Giuseppe BERTA
4 Minuti di Lettura
Venerdì 2 Giugno 2017, 19:27
Gli indicatori economici ci sottopongono a un’autentica doccia fredda di dati. Un giorno ci dicono che l’Italia è il fanalino di coda dell’Eurozona; il giorno dopo una notizia apparentemente opposta ci informa che la nostra economia non solo è in fase di miglioramento, ma sta addirittura viaggiando a una velocità superiore a ogni previsione. Ieri è stato il turno delle buone notizie, di cui si è fatto latore l’Istat. Il primo trimestre italiano si è rivelato decisamente migliore del previsto: si era stimato che la nostra crescita fosse stata dello 0,2% e invece essa, a conti fatti, è risultata del doppio, cioè dello 0,4%. Giubilo immediato del governo che non solo vede profilarsi la possibilità di una crescita al tasso annuale dell’1,1%, ma che immagina di poter andare persino oltre. Il che, naturalmente, potrebbe accordarci qualche margine di negoziato in più nel rapporto sempre tormentato con Bruxelles.

Il numero di ieri dà adito davvero all’ottimismo? E quanto possiamo essere davvero sicuri che l’Italia economica abbia ripreso a marciare di buon passo? Intanto, a leggere con attenzione la nota dell’Istat, ci si accorge che la crescita non è stata equamente ripartita fra i settori. Il merito dell’indice positivo va ascritto soprattutto al sistema dei servizi nel suo complesso, che ha fatto bene (+0,8%) e anche all’agricoltura (+4,2%). L’industria invece, contrariamente alle attese, non ha fatto altretanto bene, tant’è che la sua performance ha il segno negativo (-0,3%), nonostante nei primi tre mesi del 2017 si sia lavorato due giorni di più che nel periodo corrispondente del 2016. Resta dunque il problema d’una crescita che non si è ancora assestata in maniera omogenea e attende una stabilizzazione.

Sullo sfondo però rimane un’altra, più importante questione: per quanto possiamo sentirci rassicurati dagli ultimi dati Istat, il confronto internazionale conferma una situazione a nostro svantaggio. Nel primo trimestre di quest’anno il Pil dell’Eurozona si attesta allo 0,5%, con una proiezione annuale all’1,7%, una cifra che purtroppo permane fuori della portata dell’Italia.

A questo punto tornano utili le indicazioni che l’altro ieri il governatore Visco ha letto nel corso della sua relazione all’assemblea della Banca d’Italia. La crisi ha colpito il nostro Paese più duramente delle altre nazioni europee (con l’ovvia eccezione della Grecia). Rispetto al 2008, cioè prima che la crisi diffondesse i suoi effetti, il nostro Pil è ancora sotto del 7%, laddove quello dell’Eurozona è superiore del 5%. Il divario è impressionante.
Ma Visco ha detto altre cose molto significative, cui forse non è stato dato il rilievo che meritavano. Ha sostenuto, per esempio, che l’ultima crisi ha avuto sull’economia italiana degli effetti più gravi ed estesi di quelli che ebbe la Grande Crisi degli anni Trenta, quella che siamo soliti evocare come la catastrofe del capitalismo internazionale. Questo perché il nostro Paese non ha dimostrato la capacità di reazione che ebbe allora. Di qui gli sconvolgimenti che si sono avuti sulla nostra struttura economica, con una ripercussione durevole sulla capacità produttiva.

Un secondo passaggio della relazione del governatore della Banca d’Italia che dovrebbe destare allarme è quello relativo all’esposizione del sistema occupazionale alle conseguenze delle innovazioni tecnologiche. Utilizzando le stime dell’Ocse, ieri Visco ha ipotizzato che un 10% dei posti di lavoro del nostro Paese sarebbe a rischio, mentre la metà del totale dovrà misurarsi con i suoi contraccolpi. Sono valutazioni che dovrebbero far riflettere soprattutto perché la crisi ci ha impoverito e non disponiamo delle risorse ingenti necessarie per far fronte a cambiamenti di tale portata del mercato del lavoro.

Visco ha anche tratteggiato uno scenario per gli anni prossimi di una crescita all’1% annuo, con un’inflazione al 2% e un avanzo primario (cioè al netto degli interessi sul debito pubblico) del 4%. Ciò renderebbe possibile far discendere il nostro debito pubblico sotto la soglia del 100% del Pil. Sarebbe senz’altro un risultato positivo: ma a che prezzo sarebbe ottenuto? Probabilmente a quello di un aumento degli squilibri interni, indebolendo ulteriormente la già scarsa coesione del Paese: basti pensare al Mezzogiorno, il cui Pil pro-capite è inferiore al 40% di quello del Centro-Nord.

Insomma, il problema cruciale per l’Italia consiste nell’agganciare la crescita europea, riportandosi ai suoi livelli. Finché non si sarà raggiunto questo traguardo, non si potrà dire di aver centrato l’obiettivo della crescita, specie in una fase in cui sta risorgendo l’asse franco-tedesco. Esso potrà pure restituire un po’ di slancio alla costruzione europea ma di sicuro imporrà ulteriori sollecitazioni a un’Italia che non abbia ancora recuperato appieno la capacità di svilupparsi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA